Trattativa, ammessi audio ripuliti di Graviano La requisitoria: «Legami tra boss e istituzioni»

Giuseppe Graviano non avrebbe fatto il nome di Silvio Berlusconi durante le sue conversazioni in carcere con Michele Adinolfi, boss e compagno di socialità in cella. Questo almeno secondo il legale di Marcello Dell’Utri, l’avvocato Giuseppe Di Peri, che ha depositato al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia una consulenza audio che smentirebbe le trascrizioni delle intercettazioni. La consulenza, ammessa agli atti, è stata effettuata sulla base della rappresentazione dello spettrogramma che misura la intensità delle frequenze del suono nel tempo. «Lo studio dimostra in modo inconfutabile che le trascrizioni delle conversazioni fatte dalla Procura non sono fedeli», si legge nella relazione del tecnico, Alberto Giorgio, nominato dalla difesa dell’ex senatore. 

Di Peri ha anche depositato una pendrive con l’audio ripulito dai rumori che confermerebbe l’esito della consulenza effettuata tramite lo spettrogramma. La corte d’assise si è riservata di decidere se ammettere la relazione del tecnico. La conversazione di Graviano è del 10 aprile del 2016. Secondo le trascrizioni dell’accusa il boss avrebbe parlato di promesse fatte dall’ex premier a Cosa nostra. La corte ha anche acquisito il certificato di morte del boss Totò Riina, tra gli imputati del processo. Chiuse le questioni preliminari, la corte ha dato la parola al pm Roberto Tartaglia per l’inizio della requisitoria.

«Questo processo – dice in aula il pm Roberto Tartaglia, che ha dato il via alla requisitoria – ha avuto peculiarità rilevanti che l’hanno segnato fin dall’inizio e che hanno segnato questa lunga istruttoria dibattimentale che oggi si è conclusa. Questo è un processo che, con tutti i limiti dell’azione giudiziaria, ha incrociato una parte importante della storia che dagli anni ’90 e ha riguardato i rapporti indebiti che ci sono stati tra alcuni boss di Cosa nostra e alcuni esponenti delle istituzioni dello Stato». La requisitoria arriva dopo quasi quattro anni di processo e 202 udienze. «Una storia che – continua il procuratore – al di là della retorica e della linea della fermezza evocata dai protagonisti della vicenda che hanno ribadito la fermezza della linea dello Stato, per noi invece tante volte tradita, la verità che è emersa è quella di una parte importante e trasversale delle istituzioni che, spinta da esigenze personali, egoistiche, ambizioni di potere contrabbandate per ragioni di Stato, ha cercato e ottenuto il dialogo e parziale compromesso con cosa nostra». Il magistrato ha inoltre ricordato come la mafia sia stata sempre in cerca di canali di mediazione con le istituzioni.

«Dovremo provare sistematicamente tutti i singoli elementi di prova che non vanno atomizzati ma letti nell’insieme perché se divisi in tasselli sarebbero sottovalutati, mentre analizzarti nel loro complesso si mostrano come tasselli di un unico disegno – aggiunge ancora Tartaglia che rappresenta l’accusa insieme ai pm Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Nino Di Matteo – Si è cercato di banalizzare la contestazione che abbiamo fatto agli imputati dicendo che la trattativa non è reato». Il pm è poi passato ad analizzare le condotte contestate ai mafiosi, Riina e Provenzano nel frattempo deceduti, Bagarella e Cinà. «Hanno commesso la condotta tipica dell’articolo 338, la violenza e la minaccia al Corpo politico dello Stato, condotta che ha preso il via con il delitto Lima. Fin dal marzo del 92 le finalità dei boss sono duplici, la vendetta e il ‘messaggio’ alle istituzioni, il ricatto al governo» E a conferma della tesi dell’accusa ha citato le parole del boss Riina intercettato. «Io al governo gli devo dare i morti – diceva il padrino di Corleone – È esattamente in termini crudi l’essenza dell’imputazione ai mafiosi». Per la Procura, poi, i politici coinvolti, come Marcello Dell’Utri, avrebbero agito in concorso coi mafiosi avendo svolto un’attività di mediazione tra i boss e lo Stato, mentre i carabinieri imputati, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, avrebbero assicurato in modo clandestino e illegittimo, il collegamento tra i mafiosi e parte delle istituzioni. 


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