Mafia, l’organigramma del clan di Borgo Vecchio «Elio Ganci è il boss, ce l’abbiamo messo noi»

«È lui che ha preso le redini del Borgo Vecchio. Lo so perché lo abbiamo messo noi». A parlare così è Giuseppe Tantillo, fino al suo arresto, avvenuto nel 2015, reggente della famiglia mafiosa di Borgo Vecchio insieme al fratello Domenico. Un’investitura, la loro, voluta dai vertici del mandamento di riferimento, quello di Porta Nuova. E sono sempre loro che scelgono, seduti al tavolino di un bar, chi erediterà il posto di comando una volta finiti dentro: il prescelto è Elio Ganci, scarcerato a novembre 2015. «Noi abbiamo parlato con lui se nel caso era disposto a continuare, e lui ci ha detto di sì». Loro entrano e lui esce, in pratica. In cella c’è già stato proprio per aver fatto parte di quel mandamento che adesso si ritrova a gestire. E per farlo, eredita, in un certo senso, anche gli uomini di fiducia che prima di lui avevano scelto i Tantillo.

Sono Fabio Bonanno, Salvatore D’Amico, Luigi Miceli e Domenico Canfarotta. Tutti avrebbero svolto, secondo quanto emerso dalle indagini, incarichi piuttosto delicati: i primi tre consegnano ai famigliari dei detenuti il cosiddetto sostentamento economico per tirare avanti, curano l’attività estorsiva e, in caso di atteggiamenti non proprio compiacenti delle vittime designate, si occupano anche di mettere in atto danneggiamenti e pestaggi. Il quarto uomo, invece, controlla e gestisce la piazza dello spaccio di droga nella zona. «Ci misiru a Elio ora?». È il 25 gennaio 2016, e Domenico Tantillo vuole delle conferme, vuole essere sicuro. E il suo interlocutore, il figlio (Vittorio), fa un cenno di assenso con la testa. È lui il nuovo vertice. Lo sa bene anche il pentito Francesco Chiarello, che nel 2015 racconta ai magistrati che quello stesso nome, Elio Ganci, era segnato sul famoso libro mastro ritrovato nel covo dei Tantillo, un «diario» della mafia, con l’elenco dei negozi e delel cifre relative da versare al mandamento, e l’elenco di detenuti da aiutare proprio con quei soldi. «Ci davano 1500 euro ogni mese», racconta. Sarà Ganci, a sua volta, uscito di prigione a dover occuparsi della stessa cosa per le famiglie dei Tantillo, ormai in galera.

E poi ci sono i sodali. «Fabio era quello che ci favoriva il panificio, si metteva a disposizione con noi, era molto affettuoso». Di Bonanno, Monica Vitale conserva un bel ricordo, il suo compagno Gaspare Parisi, ex reggente anche lui della famiglia di Borgo Vecchio, gli aveva tolto il peso di un debito di diecimila euro, un favore non di poco conto. Tanto che quello, per tutta risposta, trasforma addirittura la sua attività nei pressi di via Libertà nella base operativa dove incontrare il gruppo criminale, per pianificare le attività illecite da mettere in atto. E lo fa pur non essendo ancora, a tutti gli effetti, un sodale del clan. «È uno vicino a noi, fa parte del nostro gruppo, si occupa delle estorsioni», ammette sempre Giuseppe Tantillo. A gestire il racket del pizzo, però, non è da solo. Insieme a lui c’è Salvatore Toti D’amico, soprannominato Tacco e punta, e Luigi Miceli alias Lulù.

Il primo è molto in confidenza non solo con i Tantillo, ma anche con Vito Galatolo e tra i due le carinerie e i «sangue mio» intercettati dagli inquirenti non si contano. Già indagato per mafia, D’Amico rimedia un’assoluzione nel 2010, a dispetto delle dichiarazioni del pentito Andrea Bonaccorso, che lo faceva figlioccio di Angelo Monti, anche lui ex reggente di Borgo Vecchio, che lo avrebbe usato come tramite per recapitare messaggi e tenere i contatti con i boss della Noce. Mentre il collaboratore Maurizio Spataro, già nel 2008, lo colloca come uno degli uomini vicino a Elio Ganci, uno di quelli che si occupa delle estorsioni. Ma anche dei pestaggi, a giudicare dalle dichiarazioni più recenti di Giuseppe Tantillo. 

Lulù, invece, dei Tantillo è il nipote, «a mia moglie ci sembrava che era un minorenne», racconta Chiarello: «Ma mi mannanu i picciriddi?», gli avrebbe detto lei, a proposito del sostentamento ricevuto mensilmente per via del marito in galera. Ma non si tira indietro, Miceli, nemmeno quando c’è da alzare le mani e il solito Giuseppe Tantillo, infatti, lo descrive come il responsabile del pestaggio di due fruttivendoli, rei di aver maltrattato un concorrente più giovane che si era posizionato vicino a loro. Per la droga, poi, una persona ad hoc: «Si interessava a tutte cose lui, lo comprava, lo vendeva. Cocaina, lui si occupa della cocaina». Lui è Domenico Canfarotta. «Me la faceva vedere, che ha fatto questo affare, poi dice di qua ti do tremila euro, quattromila euro, va bene», è quello che racconta di lui Tantillo. 


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