Tagliavia, il presunto boss che sogna un altro mestiere «Vogliono tutti soldi, uno può essere consumato così?»

«Sono solo, nessuno si immedesima, non gli interessa niente a nessuno e fanno bene perché i cristiani soldi non ne hanno e chiudono le porte. Io non sono capace a chiudere le porte ed è sbagliato… allora l’unico rimedio è non farmi più vedere per strada da nessuno». A sentirlo parlare così, Pietro Tagliavia, sembrerebbe più un benefattore in crisi che il punto di riferimento di uno dei mandamenti storici di Palermo, come invece sostenuto da polizia e guardia di finanza, che l’hanno arrestato lo scorso 19 luglio. Figlio di Francesco Tagliavia, condannato all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, nell’ambiente spesso è semplicemente Triglia. Nessuno dei suoi sodali, infatti, è autorizzato a farne il nome durante una conversazione. È prudente, Tagliavia. È ossessionato dall’eventualità di essere intercettato. Si avvale di soggetti costantemente disponibili a far giungere, pare, direttive agli altri membri della cosca e a riceverne le risposte necessarie a garantire il perseguimento delle strategie criminali d’interesse per il mandamento. Tanti sono i suoi uomini di fiducia. Fra questi il cognato Claudio D’Amore, Francesco Paolo Clemente, e c’è anche ‘u Muccunialias Giuseppe Lo Porto, il fratello del cooperante umanitario ucciso in Afghanistan da un drone statunitense. Ma i suoi sforzi, alla fine, non lo avrebbero premiato.

Condannato a otto anni dalla Corte d’appello, con sentenza irrevocabile del 2009, già nel 2011 è fuori. Tra una detenzione e l’altra per associazione mafiosa, però, i legami con Cosa nostra non vengono meno, anzi. È lui, per gli inquirenti, il reggente del mandamento e della famiglia mafiosa di Corso dei Mille e i suoi traffici illeciti spaziano dalla rivendita di pesce al lotto clandestino. Il suo ruolo di spicco sarebbe consacrato dalla numerosa mole di intercettazioni. Centralità e autorevolezza sono le parole chiave che lo identificano. Lo rispettano tutti all’interno dell’organizzazione. Ma anche fuori. Tagliavia, dal canto suo, si spende molto per ricoprire al meglio il suo ruolo di vertice, e soprattutto per rispondere a tutte le necessità dei sodali detenuti e dei loro familiari, arrivando persino a criticare chi non segue il suo esempio e non riesce a rinunciare alle ferie. Si trova con l’acqua alla gola, però, e non riesce più a dare a tutti l’aiuto necessario. Allora Tagliavia si sfoga. «Non sono capace di dire di no..gli dico “non li ho”..assai assai ci posso dire “vieni la prossima volta, vediamo, vieni fra una settimana, vieni fra”…ma arrivano richieste allucinanti», dice ai compari Giovanni Raccuglia e Salvatore Montalto. Ad ascoltare c’è anche il marito di sua sorella, Giovanni Lucchese, che per tutti è solo Johnny.

«Ognuno ha i suoi problemi, le sue camurrie. Questa settimana ho fatto un bonifico di mille euro all’avvocato e mille euro ieri gli ho portato un altro acconto a lui. Mettigli i soldi sul libretto – dice, alludendo al conto riservato ai detenuti – Dico io…dovrei privare a mia madre e mio padre perché devo prestare i soldi agli altri? Ma stiamo scherzando?». «Ti devi privare tu per gli altri, non c’entra niente», gli risponde Raccuglia. Ma quando le cose vanno male, anche i sodali migliori cominciano a tirarsi indietro: «Se gli telefoni ad uno ad uno, di tutti questi, a quest’ora sai dove sono? Chi è in barca, chi è in gommone, chi è in spiaggia, chi è a San Vito, chi è a Scopello, chi è ad Alcamo. E noi siamo a buttare il sangue qua…io dovrei essere in qualche spiaggia – si sfoga il boss – Uno veramente deve cominciare ad essere egoista, stop! Deve pensare per sé, mi dispiace, non ci sono più le condizioni di poter aiutare il prossimo…fino a quando uno lo può fare, lo fa, ma..». Pare, insomma, che il mestiere di boss di questi tempi non frutti granché. Sono più le rogne che i guadagni.

«La gente non è che guarda che è tutto fumo alla fine, sono tutte spese, è tutto un giro di soldi. Nel frattempo sento dire che quello si è comprato questo e quest’altro, una volta uno si era comprato una Porsche, vero è? – continua – Io mi devo togliere questo orologio dal polso per ora, perché può essere per questo che chiunque mi vede mi domanda soldi. Devo camminare con lo Swatch. Non è che uno può essere sempre consumato così, la ruota ci deve essere quando deve stare un poco dritta. Io nella vita penso che è tutta buona volontà, i soldi si trovano». Intanto i detenuti qualcuno deve pur aiutarli, e alla fine Tagliavia non sembra essere uno che si tira indietro. «Ci vogliono millecinquecento euro per l’avvocato..cinquecento euro per lui, una casa gli devo trovare in affitto, fuori Palermo. Purtroppo ognuno si tira il suo carretto e le persone vogliono tutti soldi…tutte, indistintamente vogliono soldi». Già, proprio tutti. Compreso lui e i suoi picciotti, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti. Ma c’è un momento in cui lo sconforto è tale che pensa addirittura di gettare la spugna. È il 13 gennaio 2015 quando intercettato palesa forti ripensamenti sul suo ruolo all’interno dell’organizzazione: «Mi ha stancato questo lavoro, basta». Non lascia mai, però. Almeno fino al blitz del 19 luglio. 


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