Borsellino raccontato nel libro di Alessandra Turrisi Cavaliero: «Un uomo che lo Stato non ha meritato»

«Ho conosciuto Paolo nella stanza di Rocco Chinnici. Mentre ci penso, lo rivedo ancora entrare in quella stanza con la giacca sulla spalla e la sigaretta in bocca. È successo 36 anni fa, ma è una scena impressa nella mia memoria». Il ricordo si tronca bruscamente e lascia spazio alla commozione. Era il 1981 e chi racconta quest’episodio, vissuto a soli 23 anni, è un Matteo Frasca ormai adulto, oggi presidente della Corte d’appello di Palermo. Quello che regala al pubblico accorso ieri nel cortile della biblioteca di Casa Professa è un ricordo genuino, doloroso. L’occasione è quella della presentazione dell’ultimo libro della giornalista Alessandra Turrisi, Paolo Borselllino. L’uomo giusto. «Ho apprezzato molto questo libro. Leggero nell’esposizione, ma non nei contenuti – spiega Frasca – Ci presenta una dimensione di Paolo quasi inedita, che pone volutamente a margine la sua solita figura. Si parla di Paolo come uomo, con le sue caratteristiche di essere umano, con la sua vocazione religiosa, l’attaccamento alla famiglia, la dedizione al lavoro, che non era la sua unica ragione di vita. Forse è in questo che era diverso da Giovanni Falcone».

Un Paolo Borsellino, quindi, rappresentato nelle sue diverse articolazioni, che ci consegna uno spaccato diverso dal solito. «Erano nati nello stesso quartiere, Paolo e Giovanni, e dopo essere cresciuti assieme si sono ritrovati per caso nell’ufficio di Chinnici – ricorda – Non avevano l’ambizione di fare carriera, ma solo di essere magistrati. Il nostro dovere oggi non è quello della commemorazione, non solo quella almeno, ma di fare memoria, di fare nostro quel senso civico che era loro». Conclude così Frasca, visibilmente emozionato. Prima di lui, a prendere la parola è stato un altro ex collega di Borsellino, Diego Cavaliero, oggi presidente della Corte d’appello di Salerno. E anche per lui contenere l’emozione non è stata impresa semplice, soprattutto dopo aver riascoltato la voce proprio di Borsellino, nel discorso tenuto 25 anni fa oggi nello stesso cortile. «Risentire la sua voce qui mi fa capire che c’è una ferita che non si può rimarginare – dice subito – Sono stato per 25 anni un pm in Corte d’assise, ma a parlare di cose così private e personali non sono capace».

Trascorrono un anno insieme, Cavaliero e Borsellino, un anno vissuto gomito a gomito, in un ufficio con le porte una di fronte all’altra. «Pranzavamo ogni giorno assieme nell’appartamento dove lui si pagava l’affitto. Ero io quello che cucinava e puliva, mentre lui si addormentava puntualmente con la sigaretta in bocca e io gliela levavo – continua – Era talmente uomo di Stato che anche davanti a un film parteggiava sempre per lo Stato, fosse pure l’esercito, io invece ero quello che tifava sempre per gli indiani». Del libro di Alessandra Turrisi anche lui ne apprezza la prosa fluida e semplice: «A differenza di altri prodotti che parlano di mafia e che propongono soluzioni o ambiscono a svelare chissà quale segreto, questo sembra un libro di favole che si legge in un’ora e mezza e che non ha alcuna pretesa». Ma nessuno vuole svelare troppo del libro, e tutti alla fine scelgono di raccontare un uomo che hanno conosciuto da vicino. «La verità vera sul perché è morto Paolo fino ad ora non si sa e ho paura che non si saprà mai – torna a dire Cavaliero – Chi sapeva è passato a miglior vita oppure semplicemente non ricorda più. Restano in me dubbi, però, insoluti».

Uno fra tutti quello dell’agenda rossa: «Perché non portarsi via direttamente tutta la borsa? Perché, chi un attimo prima aveva fatto saltare in aria una strada, doveva prendersi la briga di frugare in quella Croma che bruciava, guardare dentro alla borsa e prendere solo l’agenda? È un fatto possibile? E perché nessuno, del pool che ha indagato dopo, ha pensato di effettuare un test del Dna su quella borsa?». E poi c’è Vincenzo Scarantino: «Perché la necessità di creare un finto pentito? – si chiede – Non parlo da magistrato, ma da uomo della strada che vuole sapere perché è morto un amico, insieme ai ragazzi della sua scorta. La verità è che lo Stato questi morti non li merita». Una conclusione dura, alla quale fa eco quella del sindaco Leoluca Orlando, seduto tra il pubblico: «Mi ricordo di quel 25 giugno 1992, non posso dimenticare l’intervento di Borsellino proprio qui quella sera, un testamento spirituale – dice – Alla fine si sono tutti alzati in piedi ad applaudirlo, ma io non volevo, mi sembrava un saluto d’addio a una persona giusta che se ne stava per andare».

«Dopo 25 anni dobbiamo chiederci se noi, cominciando da me, con i vari processi e non solo abbiamo reso onore a Paolo Borsellino – continua a dire – Dopo aver sentito di recente un’intervista di Fiammetta, la figlia minore, ho deciso che non parlerò più di lui senza parlare anche del nostro difetto nei suoi confronti, quello di non averlo saputo ricordare per 25 anni». Un intervento breve, quello del sindaco, ma pieno di amarezza. Nemmeno il figlio del giudice, Manfredi, intervenuto prima di lui, aveva voluto dilungarsi: «Questo libro ci ha regalato un sorriso, ma non aggiungo altro, perché in occasioni come queste le parole migliori sono quelle che non si dicono». Infine l’autrice: «Ringrazio chi, con la propria testimonianza diretta, ha contribuito nel mio intento: fare venire fuori un Paolo a tutto tondo, l’uomo di fede, il giudice, il padre, il marito, il picciuttunazzu, con la sua integrità, con i suoi momenti di sconforto ma anche di babbìo – spiega – Non sono una cronista di giudiziaria, io non racconto processi, racconto persone».


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