Dall’orrore al pentimento, a colloquio con Spatuzza «Dovevo capire, per questo ho scelto di incontrarlo»

«Ripercorrendo per l’ultima volta il corridoio del carcere, mi sembra che sia passata una vita. Mi sento distante e vicina da quel mondo in cui sono venuta fuori». In queste righe finali del libro di Alessandra Dino, sociologa e professoressa dell’università di Palermo, A colloquio con Gaspare Spatuzza, un racconto di vita e di stragi – edito da Il Mulino e presentato ieri all’Istituto Gramsci di Palermo – c’è la scelta di una studiosa che ha insistito in modo ostinato per incontrare il suo interlocutore rinchiuso in un carcere in una località segreta e che da questo confronto è stata comunque segnata.   

«Ho scritto questo libro come un genere contaminato poco accademico che mettesse in discussione la mia figura anche come cittadina. Ho ritenuto che andasse fatto un libro sui silenzi del collaboratore, un’esperienza per me forte che vale più di 20 anni di carriera». Un racconto in parte autobiografico, in parte un saggio ma anche un diario e che, comunque, si presta a più chiavi di lettura. «Avevo bisogno di capire, per questo ho deciso di incontrarlo – ha detto Dino – Il tentativo di depistaggio sulle stragi del ’92 e questa lettura pacificante da parte della politica lo consideravo un’offesa della verità. Dovevo confrontarmi con un soggetto che aveva attraversato tutti gli episodi stragisti, è il primo che parla di Dell’Utri e Berlusconi nel periodo antecedente alle stragi. Spatuzza sa di avere come nemici non solo i mafiosi, ma anche gli uomini delle istituzioni».

È un uomo ambiguo e lucido, nonostante la reclusione di tredici anni e lo si evince in tutte le 250 pagine. L’aiutante boia di Brancaccio arrestato nel 1997, si autoaccusò di aver rubato la Fiat 126 imbottita di tritolo che venne utilizzata nella strage di via D’Amelio, fu tra gli esecutori materiali dell’omicidio del beato don Pino Puglisi il 15 settembre 1993 e, due mesi dopo, il 23 novembre rapì il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore Santino.

«Spatuzza non è il mostro – sottolinea Dino – fa parte di un sistema pieno di zone oscure. Il libro non dà delle risposte, ma apre a una serie di interrogativi attraverso il rapporto interpersonale che si è venuto a creare con l’interlocutore e cerca di far capire come relazionarsi con un mondo che sembra lontano, ma invece è vicino». È una narrazione complessa più volte interrotta che dura complessivamente due anni. «Ci siamo studiati – continua l’autrice – ed è stato sempre un rapporto rispettoso da entrambe le parti. Io gli ho fatto subito capire che il mio ruolo era quello di ricercatore che non doveva avallare il suo pungo di vista. Lui aveva un’intento diverso nell’incontrarmi, ma alla fine abbiamo concordato insieme un testo sul quale era d’accordo».

Spatuzza è stato segnato da un’infanzia travagliata: il padre morì in un incidente stradale mentre il fratello venne ucciso dopo il sequestro di Mandalà. A dodici anni dopo aver fatto l’imbianchino entrò in contatto con Giuseppe e Filippo Graviano, capi mandamento di Brancaccio che lo crebbero a pane e omicidi, un legame mai spezzato.

«Il personaggio di questo libro sottolinea Bianca Stancanelli – giornalista del L’Ora e scrittrice -, seppur bocciato due volte alle elementari e cresciuto in un contesto difficile, è un uomo molto ambizioso. Lo si evince dai testi che legge, tra i quali spiccano quelli di Dostoevskij e di Gramsci, ma anche dal fatto che nel momento in cui si converte (nel libro se ne parla) chiede di farlo davanti a un vescovo. E poi c’è il capitolo della comparsa in sogno del giudice Giovanni Falcone, entrambi in posizione paritaria. Questo pentito è una persona di sostanza, devo ammetterlo».

La figura di Spatuzza è figlia di un periodo storico pieno di punti oscuri e rappresenta, nel bene e nel male, uno spaccato della società: «La mafia – sottolinea Franca Imbergamo, magistrato della Dia – è parte della storia della società. Spatuzza cerca agganci alti perché si rende conto che lui fa parte della storia della democrazia. Probabilmente ha incominciato a collaborare perché consapevole del depistaggio e lo ha fatto per proteggersi. L’autrice – continua il magistrato – incontra una parte narrante che conosce la storia del Paese e di quelle parti che lui non ha raccontato nemmeno a noi magistrati. E per noi come categoria, è un libro imbarazzante perché ci sprona a non fermarci e a prendere in mano gli interrogativi. Fra le righe del racconto io intravedo tutta la disperazione di un uomo testimone di vicende che ancora non sono state affrontate».

A questa lettura pragmatica del magistrato è seguita anche quella della giornalista Egle Palazzolo: «Io ho ammirato – continua la scrittrice – la perspicacia e il coraggio di questa donna, oltre alla narrazione profonda e attenta nel richiamare anche atti giudiziari e testi narrativi e filosofici. Ho apprezzato soprattutto la volontà dell’autrice di effettuare una ricerca e di spiegare come sia cambiata la mafia da parte di chi ne è stato protagonista».

A chiudere la riflessione sul libro Gisella Modica, scrittrice e membro dell’associazione Mezzocielo: «Ritengo che protagonista del libro è chiunque lo legga perché c’è un approccio empatico che non può non essere recepito. Penso che il testo racconti la contaminazione di mondi limitrofi senza aver paura di guardare in faccia un mostro».


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