Giovanni Domè, vittima di mafia con 42 anni di ritardo «Cosa nostra mi ha fatto vergognare di com’era morto»

«È difficile raccontare ferite che, malgrado i tanti anni ormai trascorsi, non possono proprio rimarginarsi». Si trattiene, è visibilmente emozionato, ma non vuole cedere troppo il passo alla commozione. In piedi accanto al palchetto allestito dai ragazzi dell’associazione ContrariaMente-Rum c’è lui, Ferdinando Domè: suo padre Giovanni era il custode degli uffici del costruttore Girolamo Moncada. Uno di questi uffici era quello dove, la sera del 10 dicembre 1969, avvenne quella che è passata alla storia come la strage di viale Lazio. Muore quella sera con il collega Salvatore Bevilacqua al suo fianco, insieme erano andati a chiedere lo stipendio che tardava ad arrivare.

Non potevano immaginare che si sarebbero trovati coinvolti in una sparatoria all’ultimo sangue fra gli uomini di Totò Riina e quelli del boss Michele Cavataio. Un portinaio qualunque, Domè, nel posto sbagliato al momento sbagliato. Per riconoscerlo, però, ci sono voluti ben 42 anni, quando a marzo 2011 la Corte d’assise d’appello di Palermo ha confermato gli ergastoli per Riina e Provenzano per quel sanguinoso eccidio. 42 anni per essere ufficialmente riconosciuto vittima di mafia, un totale estraneo a Cosa nostra e a quella strage. Muoiono in tanti quella sera: i corleonesi sono i più fortunati e tornano indietro solo senza Calogero Bagarella, cognato di Riina. Il resto del commando si salva.

La scena che si presenta agli inquirenti è drammatica, il risultato di una carneficina. Tra quei corpi crivellati di proiettili c’è anche quello di Domè. Accanto a lui abbandonato c’è un grosso fucile. «La mafia, oltre ad averlo ucciso, è anche riuscita a farmi vergognare di com’era morto», racconta Ferdinando davanti ai ragazzi riuniti nell’aula magna di Giurisprudenza, in occasione della Giornata della memoria delle vittime delle mafie celebrata ieri. «La stampa non fu generosa – continua – trattò mio padre al pari di quei mafiosi, come se fosse stato uno di loro». Quelli che seguirono sono stati inevitabilmente anni di sfiducia verso le istituzioni e verso i giornalisti, che inquadravano la vicenda solo in un modo, inchiodando Giovanni Domè all’interno di un ruolo dal quale in realtà era lontano anni luce.

Anni di nascodimento e di bugie. Convivere con un’etichetta addosso che ti marchia in modo indelebile come figlio di un mafioso non dev’essere facile. Soprattutto se quell’etichetta non corrisponde neppure al vero. «Per anni ai miei figli ho raccontato che il nonno era morto di infarto», conclude: «Ci sono voluti troppi anni per capire e ammettere che lui con la mafia non c’entrava niente. Una sentenza ha finalmente stabilito che Riina fu il mandante e Provenzano uno degli esecutori – dice ancora – Abbiamo ricominciato a sperare solo da quel momento, solo dopo quella sentenza. E solo ora possiamo ricominciare a vivere».


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