Un collaboratore di giustizia attacca Salvatore Candura «Il falso pentito si vantava in carcere per le sue truffe»

«Non sto parlando perché voglio degli sconti. Mi sono deciso perché il mondo delle organizzazioni criminali è tutta un’illusione e io non voglio averci più nulla a che fare». A parlare così è un collaboratore di giustizia calabrese durante il processo ai membri di un’associazione a delinquere basata su truffe alle assicurazioni e lesioni personali aggravate, smantellata a marzo di quest’anno dalla Dia di Palermo. Il gruppo criminale, composto da Maurizio Furitano, Pietro Carollo, Francesco La Mattina, Michele Teodoro e Davide Scafidi si avvaleva della complicità di alcuni personaggi della criminalità organizzata partenopea: Luigi D’Onofrio, Anna Campagna e Luciano Rinaldi. Sarebbe stato Salvatore Candura, il finto pentito della strage di via D’Amelio, a reggere le fila della banda: «Era il capo di questa organizzazione», precisa il collaboratore, che per un periodo ha condiviso la cella del carcere Pagliarelli con lui. Candura, a differenza dei presunti complici di Napoli, ha chiesto il rito abbreviato ed è stato condannato a cinque anni.

«Lui si vantava», dice ancora il collaboratore spiegando che lo stesso Candura in carcere avrebbe raccontato i motivi per cui era stato arrestato e i dettagli di quello che aveva fatto. In questi racconti riferisce, in particolare, di due falsi sinistri: in uno di questi la vittima era una complice poco convinta. L’accordo iniziale di romperle il ginocchio, sarebbe saltato non appena la donna ha deciso di tirarsi indietro, temendo di sentire troppo dolore. «Candura le disse che aveva già investito dei soldi, che le aveva pagato la nave per venire qua a Palermo e anche l’albergo, quindi insisteva “tu sta cosa la devi fare”». L’accordo viene quindi ristabilito, secondo il racconto del collaboratore, ma viene scelta una ferita di natura diversa: le procurano, infatti, un taglio profondo alla mano con una bottiglia di birra trovata per terra. Sono tutti dettagli che confermano quanto già ricostruito dagli inquirenti grazie alle intercettazioni. Nel secondo sinistro, invece, un’altra donna aveva riportato una lesione sul viso, fra quelle che permettevano all’associazione criminale di ottenere il più alto rimborso da parte di un’assicurazione. «Lui è andato in ospedale e le ha aperto con le mani la ferita per allargare lo squarcio – racconta il collaboratore – per rendere insomma la ferita più larga e più profonda.

A inchiodare Candura, quindi, non sono solo i risultati delle indagini coordinata dalle pm Annamaria Picozzi e Claudia Ferrari, insieme al sostituto procuratore Gaspare Spedale, ma anche le dichiarazioni dell’ex compagno di cella del finto pentito, che depone in aula in collegamento dal carcere in cui è detenuto. Per il resto, il procedimento attualmente in corso nell’aula della prima sezione penale del tribunale di Palermo riguarda Luigi D’Onofrio e gli altri complici, quelli che avrebbero fatto arrivare in Sicilia gente da Napoli: l’organizzazione, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, pagava il viaggio e il soggiorno, organizzava il finto sinistro, con la compiacenza di qualcuno che metteva a disposizione la propria automobile, facendo poi pagare tutti i danni del finto incidente all’assicurazione. Le vittime prendevano una somma forfettaria che si aggirava tra i mille e i duemila euro, mentre i boss della truffa si accaparravano il rimborso ottenuto grazie al finto incidente di turno. Candura, che è stato convocato in aula per la prossima udienza del processo, non avrebbe risparmiato all’ex compagno di cella alcuni particolari anche in merito alla sua presunta collaborazione con i magistrati dopo l’attentato a Paolo Borsellino: «Disse che per fare ritorno in Sicilia, dopo che era stato collaboratore, aveva dovuto parlare con dei responsabili di Cosa nostra che gli avevano consentito di tornare, altrimenti sarebbe stato spacciato».


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