La morte del boss di Cinisi Procopio Di Maggio u cartoccio «L’ultimo membro della Cupola, in paese tutti lo temevano»

A gennaio Procopio Di Maggio aveva festeggiato con parenti e amici cento anni. Scampato a più di un attentato durante la sua lunga vita, ieri sera è sopraggiunta la morte. «Un pezzo di storia della mafia, non solo di Cinisi, che se ne va», è il primo commento alla notizia da parte di Salvo Vitale, storico amico e compagno di lotte di Peppino Impastato. «Ha avuto una vita movimentata, sembra avesse subito almeno cinque attentati», ricorda Vitale. In uno di questi, era morto al posto suo Salvatore Zangara, per caso di passaggio nella centralissima piazza Vittorio Emanuele Orlando del paese. Era un sabato pomeriggio, quello dell’8 ottobre 1983. Già due anni prima, il 18 settembre 1981, gli spari avevano infranto l’apparente quiete di Cinisi, con un attentato alla pompa di benzina del boss, che però riuscì a rimanere in vita, rispondendo al fuoco e mettendo in fuga i killer. Una sorte peggiore è toccata ai suoi figli: il ventiseienne Francesco muore in uno strano incidente stradale, schiantandosi contro un muro in un breve rettilineo all’uscita di Terrasini. Un altro, Giuseppe, detto Peppone, sparisce, vittima della lupara bianca, dopo che aveva preso le redini del mandamento locale. Viene incaprettato, strangolato e gettato in mare nel 2000: «È stato ritrovato verso Cefalù, probabilmente ucciso dai Lo Piccolo, ai quali aveva iniziato a dare fastidio» prosegue Salvo Vitale. Il terzo, Gaspare, è condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giuseppe D’Angelo avvenuto nel 2006 e sconta oggi la pena in regime di carcere duro.

Vicino ai corleonesi e al boss Totò Riina, dopo essere stato un fedelissimo di Tano Badalamenti, Di Maggio era rimasto l’ultimo padrino della Cupola ancora in libertà. «Cinisi non c’entra niente con lui e con la mafia» aveva detto a gennaio il sindaco del paese, Giangiacomo Palazzolo, prendendo le distanze non solo dai festeggiamenti per il centenario – legittimi, invece, secondo il nipote del boss –, ma soprattutto dalla storia di questo personaggio. «Cosa dovrei dire di un mafioso che è morto a cent’anni nel proprio letto? Io credo che meno se ne parli e meglio è. Una cosa è parlare di mafia e di mafiosi vivi, un’altra di mafiosi morti in casa» dichiara a MeridioNews Giuseppe Ruffino, che apprezza e conosce Cinisi, malgrado sia terrasinese di nascita. Salvo Vitale lo ricorda oggi come un boss all’antica: «Il suo soprannome locale era ‘u Cartoccio, per alludere alle cartucce dei fucili. Finita la tempesta voluta dei corleonesi, ha vissuto la sua vecchiaia in tranquillità. Ogni giorno – continua Vitale – era solito fare una passeggiata fino al bar, sorretto dal proprio bastone».

Coinvolto nelle indagini che portarono al maxi processo istruito dal pool antimafia, iniziato nel 1986 – anno che pone fine alla latitanza di Di Maggio – e concluso nel 1992, viene accusato dei reati di associazione a delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti. Diversi pentiti lo additano come boss della famiglia mafiosa di Cinisi. Tuttavia, malgrado la condanna nei suoi confronti, esce indenne dall’accusa di essere responsabile di una ventina di omicidi. «Non arrestato e riverito sempre da tutti» ripercorre Vitale. «Ha sempre ricevuto rispetto totale e assoluto, non c’è stata mai nessuna forma di condanna nei suoi confronti. Rispetto ad altri mafiosi – conclude – è lo si è visto più come un bandito. Non ha mai ostentato ricchezza e apparentemente non ha manifestato tentativi di violenza. Forse questo è uno dei motivi per cui a Cinisi c’era questa forma di timorosa riverenza nei suoi confronti».


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