Salvatore Borsellino, le Agende rosse, la trattativa tra Stato e mafia e la paura di una ‘certa’ politica…

E’ IN CORSO, IN QUESTE ORE, IL SOLITO TENTATIVO DI SMINUIRE, SE NON DI DELEGITTIMARE, UNA DIFFICILE STAGIONE GIUDIZIARIA CHE, PER LA PRIMA VOLTA NELLA STORIA DEL NOSTRO PAESE, STA PROVANDO A CHIARIRE I CONTORNI ‘POLITICI’ DI UNA STRAGE. UN TENTATIVO GOFFO E PIUTTOSTO MISERABILE. PERCHE’, PER DIRLA CON TOGLIATTI, ORMAI, PIACCIA O NO A CERTI ‘POTENTI’, GLI ALBERI CHE DOVRANNO CADERE, QUESTA VOLTA CADRANNO…

Qualcosa ci dice che sabato 19 luglio e domenica 20 luglio 2014 lasceranno il segno. Non tanto e non soltanto perché abbiamo ricordato il ventiduesimo anniversario della strage di via D’Amelio, ma per le poche, ma significative cose che sono avvenute in questi due giorni. Queste poche cose – che ora cercheremo di descrivere – ci danno la misura della paura che certe ‘aree’ politiche del nostro Paese manifestano rispetto al processo sulla trattativa tra Stato e mafia in corso a Palermo. E’ evidente che ‘qualcuno’ si aspetta qualche rivelazione che potrebbe essere clamorosa.

Perché scriviamo questo? Perché ieri e l’altro ieri abbiamo registrato due o tre cose piuttosto strane. Che sono, lo ribadiamo, il segno della paura che possano emergere responsabilità rispetto a vicende che risalgono agli anni che vanno dal 1992 al 1994.

Facciamo una premessa: noi non siamo cronisti di giudiziaria. Noi seguiamo i fatti politici siciliani, ininterrottamente, dai primi anni ’80 del secolo passato ad oggi. La nostra, di conseguenza, è una lettura ‘politica’ di quello che stiamo ‘annusando’ in queste ore. Insomma, una ‘lettura’ politica che si incunea in fatti giudiziari. E non viceversa.

Quest’anno l’anniversario della strage in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli uomini e le donne della sua scorta ha coinciso con la celebrazione del processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Un processo che, per certi versi, non è stato accolto con ‘favore’ dai poteri forti del nostro Paese. Un processo che coinvolge ex Ministri della Repubblica, uomini dello Stato e persino il Quirinale, per via di strane e inquietanti telefonate.

La paura di chi deve rispondere, in questo processo, del comportamento tenuto in quegli anni, è palpabile. Noi, questa paura, non la rintracciamo – lo ribadiamo – dalla cronaca del processo, ma dall’atmosfera che si ‘respira’ in certi ambienti politici. Questa ‘paura’ è percepibile. Adesso proveremo a raccontarla.

Sabato scorso, in via D’Amelio, Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo Borsellino, ha abbracciato Massimo Ciancimino, il figlio di Vito Ciancimino, forse uno dei personaggi più inquietanti – e più potenti – della politica siciliana degli anni ’60, ’70 e ’80 del secolo passato. Non è questa la sede per raccontare chi è stato Vito Ciancimino, ma è bene ricordare, con qualche ‘pennellata’, che chi, nella DC dell’Isola, si è messo contro di lui non ha mai avuto vita facile. E, forse, qualcuno ci ha anche rimesso la stessa vita.

Non c’è da stupirsi se, nel 1992, ‘pezzi’ dello Stato italiano si siano recati da lui per intavolare una trattativa con la mafia corleonese.

In primo luogo perché, oltre ad essere un autorevole esponente della mafia corleonese, con molta probabilità, Vito Ciancimino aveva ‘qualcosa’ in più persino di due grandissimi boss quali Totò Riina e Bernardo Provenzano: cosa, questa, che chi ha avviato la trattativa sapeva benissimo.

In secondo luogo perché, fino a poco prima del congresso di Agrigento della DC siciliana – anno di grazia 1983 – Vito Ciancimino era uno dei leader indiscussi della Democrazia Cristiana di Palermo, un uomo politico in grado di interferire sugli equilibri regionali di questo partito.

Per comprendere il ‘peso’ di Ciancimino in molte delle vicende successive – compresi gli anni in cui si snoderà la trattativa tra Stato e mafia – bisognerebbe partire dal congresso della DC di Agrigento, quando Vito Ciancimino verrà messo fuori dal ‘suo’ partito.

Con molta probabilità, chi ha provato a farlo fuori politicamente ha giocato di sponda con la magistratura, che in quel periodo indagava sull’ex Sindaco del capoluogo siciliano. Vito Ciancimino, nel 1983, era un ‘osservato speciale’ dell’allora capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, Rocco Chinnici, una gran persona per bene che morirà, ucciso con le bombe davanti la propria abitazione, a Palermo, circa cinque mesi dopo il congresso della DC siciliana di Agrigento.

Per la cronaca, sono stati gli uomini di Ciriaco De Mita in Sicilia a mettere fuori dalla DC Vito Ciancimino (peraltro, tra i demitiani della nostra Isola, non tutti erano d’accordo sul suo ‘siluramento’: anzi). Questo passaggio traumatico e il successivo arresto non indeboliranno Vito Ciancimino, che resterà uno dei protagonisti della vita politica siciliana e palermitana in particolare, forse anche per via di rapporti ad alto livello di carattere internazionale, rintracciabili, magari, negli Stati Uniti d’America (per la cronaca, l’avventura di Vito Ciancimino inizia nel 1943, durante lo sbarco degli anglo-americani in Sicilia).

Un uomo, insomma, che, nonostante le vicissitudini giudiziarie, era ancora in grado di condizionare la politica isolana: dentro la DC e anche negli altri partiti. E, contemporaneamente, testa pensante della mafia. 

Non è un caso se, alla fine degli anni ’80, mentre era in corso la ‘Primavera di Palermo’ – ovvero le Giunte comunali di rottura di Leoluca Orlando – un’inchiesta della magistratura accerterà che Vito Ciancimino e uno dei suoi soci storici, il Conte Romolo Vaselli, si erano praticamente sostituiti al Conte Arturo Cassina nella gestione dei grandi appalti della città.

Va da sé che la sinistra DC, che in quel momento governava Palermo – con l’appoggio ‘esterno’ dell’allora Pci – non poteva non sapere. Anche perché era stata proprio la sinistra DC a mettere alle corde il gruppo Cassina. 

Vito Ciancimino, pur se colpito da vicissitudini giudiziarie, nel 1992, era ancora un uomo potente. Anche se era già in corso il ‘meccanismo’ che porterà al disfacimento di due forze politiche storiche – la DC e il Psi – questo personaggio era ancora in grado di interloquire con la politica e, soprattutto, con i boss della mafia corleonese.

Solo chi conosce tutti i passaggi del congresso di Agrigento della DC siciliana del 1983 – anche quei passaggi che non sono mai venuti fuori – può avere contezza piena di quale enorme potere era in grado di esercitare Vito Cincimino. A tutti i livelli. Cosa, questa, che potrebbe ulteriormente spiegare il perché, certi personaggi dello Stato, si sono rivolti proprio a lui per arrivare al cuore della mafia siciliana.

Le cronache dell’inchiesta e del processo sulla trattativa tra Stato e mafia ci raccontano di uomini delle istituzioni che si sono recati da Vito Ciancimino per sollecitare un contatto con i boss corleonesi. Ma è chiaro che chi si è recato da Ciancimino molto difficilmente ha fatto questo di propria iniziativa. Non può essere escluso il ruolo della politica italiana di quel momento storico. Anche perché, checché se ne dica, il ruolo che Vito Cincimino avrà nella trattativa tra Stato e mafia sarà ‘politico’.

Del resto, il processo a Bruno Contrada – un uomo che è stato per decenni ai vertici della Polizia di Palermo e poi ai vertici del Sisde – ha lasciato intuire che lo stesso Contrada non agiva di propria volontà, ma su input di uomini dello Stato. Personaggi sui quali Contrada non ha mai detto nulla, prendendosi una pesantissima condanna per mafia.

La trattativa tra Stato e mafia – che forse inizia nel marzo del 1992, con l’omicidio di Salvo Lima, leader indiscusso degli andreottiani siciliani – è un fatto ‘politico’: è una trattativa ‘politica’ a tutti gli effetti. Ed è per questo che politici ancora in vita – alcuni ancora sulla breccia – hanno oggi paura. Ed è una paura che tocca personaggi della destra, del centro e della sinistra. Sia della cosiddetta Prima Repubblica, sia della cosiddetta Seconda Repubblica.

L’ex Ministro degli Interni, Nicola Mancino, ad esempio, è un uomo politico che ha manifestato con chiarezza paura. E che ha minacciato, se le cose dovessero andargli male, di tirarsi dietro un po’ di ‘Filistei’…

Di questa trattativa ‘politica’ tra Stato e mafia il figlio di Vito Ciancimino, Massimo – che in quegli anni era molto vicino al padre – sa qualcosa. Non sappiamo se sa molto o poco: ma qualcosa sa. E questo fa paura.

Il tentativo di appannare l’immagine di Massimo Ciancimino – tutt’ora in corso – mira, per l’appunto, a minare la sua credibilità, per sminuire l’importanza delle sue rivelazioni.

Quello che Massimo Ciancimino sa della trattativa tra Stato e mafia potrebbe risultare importante anche per ricostruire i ‘pezzi’ del mosaico, ancora mancanti, della strage di via D’Amelio. Tasselli che potrebbero trovarsi in Sicilia, ma anche a Roma.

Questo possibile scenario spiega la paura, palpabile, che corre lungo l’asse Palermo-Roma ogni qual volta che Massimo Ciancimino dice qualcosa. Il fatto che Massimo Ciancimino possa aver già raccontato tutto ai magistrati – e quindi il fatto che quello che ha detto, con il ‘combinato disposto’ di un processo in corso, possa fare emergere, tra qualche tempo, verità sgradevoli – rende sempre più ‘nervosi’ certi ambienti politici, da Palermo a Roma.

Il fatto che la Giustizia italiana, anche se a fatica, stia provando a fare luce sui depistaggi che hanno contrassegnato le indagini e il processo sulla strage di via D’Amelio rende ancora più ‘nervosi’ certi ambienti politici, che magari pensavano di aver chiuso per sempre una vicenda che, invece, è stata riaperta.

La ‘valorizzazione’ politica di certi personaggi che hanno ricoperto ruoli importati in altri settori della vita pubblica del nostro Paese e il ‘nervosismo’ manifestato da ‘pezzi’ importanti delle istituzioni, sempre italiane, esprimono l’ ‘urgenza’, per una ‘certa’ politica, di chiudere al più presto una vicenda che, per la prima volta da Portella della Ginestra ad oggi, potrebbe far venire a galla cose che, in tutte le altre stragi di Stato, sono rimaste sepolte da omissis e segreti vari.

Salvatore Borsellino, uomo tutto d’un pezzo che, da anni, senza paura, si batte per fare emergere la verità sulla morte del fratello sa quale ruolo sta giocando Massimo Ciancimino nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia. Ha sempre difeso Massimo Ciancimino. Ed è del tutto naturale che sabato scorso, in occasione del ricordo del fratello, in via D’Amelio, lo abbia abbracciato.

Chi, da sabato, sta cercando disperatamente di ‘ricamare nel torbido’ in questo naturale abbraccio tra Salvatore Borsellino e Massimo Ciancimino, ebbene, lo sta facendo nel tentativo – a nostro modesto avviso disperato, goffo e inutile – di appannare l’immagine di entrambi. E, magari, di appannare l’immagine delle ‘Agende rosse’, il movimento spontaneo nato dall’impegno di persone libere, di ogni parte d’Italia, che si battono per la verità, contro le menzogne di Stato.

Il tentativo mediatico di costruire chissà che attorno a questa vicenda – tentativo, ribadiamo, goffo e per certi versi ridicolo – tra gli osservatori attenti sta ottenendo l’effetto opposto: ovvero, ancora una volta, la sensazione della crescente paura di chi, invece, qualcosa da temere ce l’ha.

Dovrebbero fare riflettere, ad esempio, i farisei di una certa ‘Sinistra’ – o presunta tale – che si ‘stupiscono’ dell’abbraccio tra Salvatore Borsellino e Massimo Cincimino e che, invece, non si stupiscono dell’abbraccio politico tra Renzi e Berlusconi su quelle ‘riforme istituzionali’ che rischiano di minare, dalle basi, democrazia e Costituzione del nostro Paese.

A tutti i protagonisti di questa paura, che ormai, per alcuni, è diventata quasi esistenziale, regaliamo una frase molto saggia di Palmiro Togliatti, cinico quanto si vuole, certo, ma grande, grandissimo uomo politico (non a caso lo chiamavano “il Migliore”): “La scure è ai piedi dell’albero, l’albero cadrà”.

Non si facciano illusioni i farisei di destra, di centro e di una certa ‘Sinistra’, o presunta tale: questa volta qualche albero cadrà…

Foto di prima pagina tratto da polisblog.it

 

 

 


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