Ragione e intrigo o criminali di Stato?

Nel nome della “Ragione di Stato”, un concetto di scienza della politica inventato mezzo millennio fa proprio dagli italiani. Ovvero quando si crede che “il fine giustifica i mezzi” per preservare la sopravvivenza dell’intera nazione. Quando uno Stato affronta un pericolo tale da comprometterne la sopravvivenza e compie un’azione fuori dalle stesse leggi dello Stato che può essere giustificata – e coperta – appunto dalla suddetta “ragione di Stato”.

Appellandosi a questa, un governo si convince che sta agendo nell’interesse della nazione intera e così anche la verità e di conseguenza la giustizia, riguardo ad un determinato avvenimento che ha coinvolto lo Stato, finiscono per essere sacrificate. Infatti si invoca anche il “segreto di Stato”.

Già, il concetto della “ragione di Stato” fu inventato in Italia. Ma dovrebbero essere eventi rari, eccezionali, che dovrebbero avere dei fini alti: lo Stato che “viola la legge” per salvarsi.

Ma se lo Stato si allea con la mafia? E’ ancora ragione di Stato o semplicemente complicità criminale? E quei “funzionari di Stato” che si fanno scudo della “ragione di stato” per agire contro gli interessi della nazione, non sarebbe meglio chiamarli “criminali dello Stato”?

Fatta questa lunga, ma necessaria premessa, passiamo al caso Mancino-Napolitano e delle indagini sulla “trattativa” tra Stato e mafia nel terribile biennio ’92-93.

La “ragione di Stato” deve essere finalizzata a preservare un vitale interesse nazionale. Ma su che cosa sarebbe avvenuta la trattativa tra lo Stato e la mafia nel biennio 92-93? L’eliminazione del carcere duro ai mafiosi condannati: questa sarebbe stata la condizione dei mafiosi per interrompere gli attentati terroristici. Una “trattativa”, cioè che rientrerebbe non nella “ragione”, ma nella “resa di Stato” e chi l’ha perseguita, dovrebbe essere processato per alto tradimento.

Già, perché intanto saltavano in aria con le loro scorte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Come si fa a “trattare” prima e dopo quelle stragi? Quando due eserciti “trattano”, le condizioni per la resa di uno non possono essere la morte per strage dei migliori generali dell’esercito che sta vincendo. Come si fa a chiamarla trattativa, questa?

L’ex ministro Calogero Mannino in una recente intervista col direttore di linksicilia.it Giulio Ambrosetti, a proposito degli anni 92-93, ha detto che per lui “la parola trattativa non esiste. Esiste, invece, la parola intrigo”.

Con l’intrigo, si entra nel girone dell’inferno dove non ci sono piú nemici che trattano, ma amici degli amici che tramano.

Alla domanda perché morí Falcone, il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, ci rispose nell’ottobre 2009 durante un’intervista qui a New York: “Ci sono tre moventi. Il primo è per quello che aveva fatto. Il secondo per quello che poteva fare. E poi per l’effetto destabilizzante che non era proprio l’interesse di ‘Cosa Nostra’, ma di qualche altra entità”.

Del giudice Grasso ci fidiamo. E anche del Presidente Giorgio Napolitano ci fidiamo, dobbiamo fidarci. Quindi carichi di questa fiducia riteniamo che nell’intervenire sulla questione delle indagini per le stragi del 92-93, Napolitano abbia agito non per “la ragione di Stato”, ma dentro le sue prerogative istituzionali col fine di aiutare il processo e il percorso della giustizia.

Detto questo, del presidente Napolitano, è di Nicola Mancino che non nutriamo affatto fiducia. Anzi, di lui proprio non ci fidiamo, e questo da quando l’ex ministro dell’Interno, durante le indagini dei processi sulla strage di Via d’Amelio, ha dichiarato di non ricordare un incontro avuto con Paolo Borsellino pochi giorni prima della strage. Un incontro che Borsellino appuntò nella sua agenda grigia (e non quella rossa scomparsa dal luogo dell’attentato). Da quell’incontro con Mancino, in cui il magistrato avrebbe parlato anche con alti vertici della polizia, Borsellino tornò sconvolto e nell’interrogare un pentito di mafia, tremante, accese due sigarette…

Mancino dice che non ricorda l’incontro con Borsellino anche perché, dice, non lo conosceva. Con l’Italia sottosopra e Borsellino in quel momento il magistrato antimafia sicuramente più in vista d’Italia, quel ministro dell’Interno arriva ad affermare che non lo avrebbe riconosciuto. Ecco perché non ci fidiamo di Mancino.

Ovviamente, questo non dimostra che Mancino sia colpevole di alcunché, ma che nasconda qualcosa sulle stragi del 92-93 lo sospettiamo, e molto. Solo i magistrati che indagano potranno accertare se l’ex ministro si sia macchiato di un reato.

Antonio Ingroia, il magistrato antimafia ex collaboratore di Borsellino e protagonista dell’inchiesta giudiziaria sulle stragi del 92-93, sul quotidiano l’Unità ha scritto che trattare con la mafia non costituisce di per sé un reato. L’indagine dei magistrati non dovrebbe infatti vertere sull’accertamento di una trattativa tra lo Stato italiano e la mafia, che sarebbe comunque la scoperta dell’acqua calda, dato che la mafia è tale solo quando riesce a instaurare dei rapporti con le autorità, altrimenti sarebbe solo criminalità organizzata e non più mafia.

Quindi l’aspetto della trattativa dovrebbe far parte del giudizio storico, morale e politico, ma non giudiziario. Ma Ingroia e i suoi colleghi, dovranno accertare se invece che trattativa si trattò di un “intrigo”. Perché resta in sospeso quel movente indicato dal procuratore nazionale antimafia Piero Grasso: Falcone e Borsellino dovevano morire per fare gli interessi di qualche “altra entità”? Quale?

Questo articolo esce contemporaneamente su America Oggi

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