Vivere (e morire) a Palermo

Si terrà il 7 Aprile, a Sambuca di Sicilia, la presentazione del libro di Aldo Penna “Il silenzio imperfetto” . La manifestazione, organizzata dal Circolo Culturale “Felicia Bartolotta Impastato”, avrà luogo nell’antica sede del Palazzo Panitteri alle ore 18:00.

La serata verrà moderata dal segretario del circolo, Ezio Bilello. Introdurrà i lavori Margherita Ingoglia, seguiranno gli interventi di Francesco Perla, Gloria Lo Bue, Maurizio Artale, presidente del Centro Padre Nostro di Palermo, del giornalista antimafia e direttore dell’emittente televisiva Telejato, Pino Maniace e Aldo Penna.

Durante la presentazione verranno letti alcuni passi del libro e verrà proiettato un video-intervista ai ragazzi di Brancaccio del centro Padre Nostro di Palermo, realizzato in onore di padre Pino Puglisi.

 

Ecco di seguito alcuni passi del libro: IL SILENZIO IMPERFETTO edito da Stampa Alternativa

Nello specchietto retrovisore troneggiava l’Etna. Flores infilò distrattamente un cd nel lettore. Dopo Enna, con la sua rupe alta e selvaggia, l’autostrada si snodava tra terre riarse e fragili, colline impastate con lo zolfo che franavano verso valle. Gli evocavano un West immaginario, selvaggio e pulito. Gli spettrali avamposti della sua città furono in vista due ore dopo. Mura sbrecciate di case non finite, catapecchie abbandonate e scheletri di industrie mai nate scorrevano al di là dei vetri. Fu preso da un vago senso di nausea. Sperava di trovarla diversa, Palermo, e ogni volta osservava, scoraggia- to, la sua immobilità.

Le luci al neon della rotonda di Via Oreto gli segnalarono la fine dell’autostrada. Sterzando verso la città universitaria, si augurò di non arenarsi nel traffico serale. Il cielo iniziava a indossare il suo abito crepuscolare e lui desiderava solo arri- vare a casa. Era stanco di quelle trasferte inutili, aveva biso- gno d’altro: di perdere dieci chili, di riaccendere l’entusia- smo per la sua professione e trovare, dopo mesi di caparbia solitudine, una donna con cui condividere i vuoti in cui spes- so sprofondava.

Arrivato a casa, tolse in fretta le scarpe, estrasse dal frigo una birra, accese la tv e si gettò di peso sul divano. Oltre al ron- zio del televisore, regnava il silenzio, con le immagini che continuavano a scorrere. Si massaggiò la pancia. Aveva quarantacinque anni e da venti lavorava nello stesso quotidia- no. Rimestare tra le macerie morali della sua città lo esalta- va e deprimeva insieme, e di macerie d’ogni genere Palermo ne era ingombra.

Il tg regionale della notte, dopo le solite dichiarazioni politiche, aprì con le notizie. “Ritrovata sulla scogliera del Foro Italico una giovane donna senza vita. La ragazza aveva indosso un vestito firmato. Secondo la polizia, la morte risalirebbe a qualche ora fa. Sembra probabile sia caduta accidentalmente sugli scogli dopo aver scavalcato la ringhiera”.

Il suo interesse si accese di colpo. Il conduttore aveva appena finito, quando il telefono squillò. Afferrò con fastidio la cornetta. “Gaetano Flores?”.

“Sì”. “Hai sentito la notizia?”. “Sono davanti al televisore”. “Domani sarai di turno. Fammi un pezzo sulla famiglia della ragazza”. Le intromissioni del suo caposervizio lo disturbavano, ma era troppo stanco per trattarlo male. Aveva solo voglia di andare a dormire. Durante la quotidiana riunione di redazione irruppe una notizia: “C’è un uomo sul tetto di Palazzo delle Aquile e minaccia di suicidarsi”. Flores si precipitò di corsa. Trovò Piazza Pretoria gremita di curiosi. Ai piedi della scalinata del- la vicina chiesa di Santa Caterina, drappelli di precari, disoc- cupati e senzatetto bivaccavano lì da mesi, una tenda da campeggio dava alla piazza un’atmosfera da suk arabo. Le statue della monumentale fontana cinquecentesca, ripulite dalle sozzure che le imbrattavano, guardavano lo spettacolo, lo stesso da secoli, indifferenti. I vigili del fuoco, intanto, ave- vano fatto arrivare un loro mezzo e stavano distendendo l’au- toscala, l’uomo continuava ad agitarsi lanciando bigliettini. Uno di questi cadde vicino ai piedi di Flores, che lo raccol- se e alzò lo sguardo verso di lui. Doveva essere un uomo sui trent’anni, indossava una maglietta rossa e continuava a muovere le braccia e lanciare grida che la distanza e il caos della piazza rendevano incomprensibili.

La scala raggiunse la sommità del palazzo comunale e i vigi- li iniziarono le manovre per accostarsi. Flores pensò ad altre spettacolari proteste finite nel nulla. Unica novità: i bigliet- tini lanciati. Quello che aveva in mano, scritto con una gra- fia insicura, diceva: “Mi hanno preso in giro, si sono affer- rati i voti e mi hanno mollato”. Lo mise in tasca e cercò qual- cuno con cui poter parlare. Scrisse qualche nota sulle moti- vazioni, annotò i nomi delle persone incontrate e fu pronto ad andarsene.

“Flores, aspetta, vengo via con te. Hai finito qui?”, gli chiese un collega osservando il pompiere sulla pedana sospesa. “Devo seguire un processo. Il nostro lanciatore di biglietti- ni lo stanno recuperando”, rispose incamminandosi al suo fianco. Avevano appena girato l’angolo, quando un urlo forte e disperato li costrinse a tornare indietro. In piazza la gente si era ammassata tra la fontana e l’ingresso del palazzo e i vigili impedivano ai curiosi di avvicinarsi. Flores salì in fretta i gradini e fu al primo piano di Palazzo delle Aquile. Si affacciò dal balcone gremito di persone: l’autoscala era accostata all’edificio, ma l’uomo del cornicione si era sfracellato trenta metri più in basso. Un piede messo in fallo mentre tentava di raggiungere la piattaforma e l’incapacità di un vigile del fuoco a trattenerlo avevano provocato la disgrazia. Osservò il cadavere dall’alto, mentre una corona di folla lo avvolgeva. Sembrava un fantoccio sfasciato con un braccio imprigiona- to in modo innaturale sotto il torace. Nella chiazza rossa attorno alla testa, come un’orrida aureola, gli parve di riconoscere, con disgusto, pezzi di cervello schizzati sul selciato.

Una ragazza attraversò di corsa la piazza, gridando. Tentarono di bloccarla arpionandola per il vestito, ma le sue mani furono più svelte e disperate e dopo pochi istanti stava con la testa incollata al petto del morto. Il suo lamento supera- va le voci della folla.

Flores sgusciò via da quel balcone affollato e ritornò veloce mente in redazione, mentre gli ululati delle sirene tagliavano l’aria come rasoi affilati. La riunione di redazione era finita. L’apertura sarebbe stata dedicata all’incidente di Piazza Pretoria: bisognava intervistare i familiari.

Camera mortuaria dell’Ospedale Civico. Il livido cubo di cemento, distanziato per pudore dagli altri edifici, traboccava di gente e di dolore. Sullo spiazzo nudo, amici e parenti della vittima, nell’aria, uno sgradevole tanfo di fiori marci. Si piazzò a un angolo per osservare i presenti: occhi rossi, sigarette fumate nervosamente e schiacciate per terra, lacri- me asciugate in fretta e mani tra i capelli. Si conoscevano tutti e cercava, senza riuscirci, di sfuggire ai loro sguardi. Un giovane con i capelli pieni di gel lo fissava da qualche minuto. Cercò di allontanarsi, ma l’uomo continuò a seguirlo con lo sguardo. Stava ascoltando due donne parlare delle conseguenze che si sarebbero abbattute sulla famiglia del morto, quando improvvisamente gli si fece davanti.

“Lei chi è?”. Flores, preso di sorpresa, balbettò una risposta: “Sono un giornalista, devo scrivere un articolo su questo ragazzo”. L’uomo scosse la testa. “Pensavo fossi uno sbirro. Vieni con me, ti racconto io come stanno le cose”. Si allontanarono dagli altri. Il ragazzo lo fis- sò senza parlare. Accese una sigaretta, diede un lungo tiro che gli incavò le guance, trattenne il fumo in gola e poi lo liberò alzando lo sguardo. “Filippo ha lavorato come un disperato per le campagne elettorali, notte e giorno, poi è stato mandato via senza un soldo”. L’odore pungente della brillantina arrivò alle narici di Flores. Aveva il volto magro e nervoso con occhi scuri e incava- ti. Poteva essere uno dei tanti mitomani che incrociava, ma il dolore sembrava morderlo per davvero. “Per chi ha lavorato il tuo amico?”, lo interruppe. L’altro parlava a se stesso e non lo sentì. “Saranno contenti adesso. Lui è morto, prima di raccontare tutto”. “Raccontare cosa?”, chiese Flores. L’uomo gettò la sigaretta per terra, cercò di spegnerla con il piede e stava per parlare, quando una signora magra e vestita di nero lo chiamò agi- tando le mani.

 

“Carlo vieni qua, che stai facendo?”. Ebbe un gesto di stizza, si girò e andò via. Il giorno dopo seduto alla sua scrivania, Flores guardava attraverso i vetri. La redazione era semideserta. Il caldo lo faceva soffrire e l’impianto di condizionamento sembrava essersi messo a riposo. Sudava. Ripensò ai due ragazzi, morti nello spazio di poche ore: la donna per una banale caduta notturna, l’altro per un incidente causato dalla sua disperazione. Un lancio d’agenzia comunicò nuove notizie sulla ragazza del Foro Italico. Si parlava genericamente di decesso per arresto cardiocircolatorio dovuto alle ferite provocate dalla caduta. Occorreva ricostruire, così come aveva fatto per Filippo, l’ambiente da cui proveniva.

Solitamente, uscendo dalla redazione, assaporava la notte in arrivo con i suoi profumi e aspirava il salmastro portato dal vento. Quella sera, invece, la nausea gli toglieva il respiro. I segnali erano già arrivati da qualche tempo, ma li aveva elusi.

Radunare gli amici per una cena o una partita da seguire in tv gli era sempre piaciuto, ma adesso fuggiva dalle voci e dal- la gente e si rifugiava, sempre più spesso, nel pub sotto casa. Viveva solo da tanti anni. A lungo aveva amato il silenzio e le stanze prive di luci che lo accoglievano al suo rientro, ora quel buio vuoto e desolato sembrava avvolgerlo come un sudario.

A volte, per spazzare quel silenzio untuoso, accendeva la radio o inseriva nel lettore un cd degli Acdc. Il violento suono degli strumenti faceva tremare i vetri, ma non se ne curava. Quella sera accese soltanto la tv, abbassò il volume e le voci dallo schermo divennero un rumore lontano. Teneva in mano la sua agendina nera. Sfogliava le pagine lentamente, scorrendo i nomi e annuendo, ogni tanto, ai ricordi. Scartò con decisione gli amici di sempre e finì per fermarsi su alcuni numeri di telefono spor- cati da macchie e cancellature.

Si alzò, raggiunse il frigo, aprì una birra e buttò giù una lun- ga sorsata direttamente dalla bottiglia. Sedette in cucina, la birra di fronte. Copiò alcuni numeri su un pezzo di carta, bevve ancora, scrisse accanto a ogni numero telefonico il nome corrispondente e guardò la bottiglia vuota. Si assopì, come gli capitava da qualche tempo. Davanti agli occhi semi- chiusi lampeggiarono i ricordi: la storia finita, la lunga soli- tudine, le colleghe attraenti, l’intraprendente Angela. Avreb- be voluto una di loro quella sera per compagnia. La botti- glia si rovesciò sul tavolo, risvegliandolo, ma riuscì ad affer- rarla prima che cadesse in terra. Riprese in mano il foglio con i numeri di telefono e scrisse altri nomi.

 

 

 

 

 


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