La Sicilia tra Separatismo e Autonomia

Tratto dal volume ‘Breve storia della Sicilia’
per gentile concessione dell’autrice
Amelia Crisantino
e dall’editore Gi Girolamo

Separatismo e Autonomia
Con la sua virulenza e i molti aspetti equivoci, il separatismo è il vero protagonista del secondo dopoguerra in Sicilia. È l’espressione del secolare malcontento popolare – sempre strumentalizzato – a cui si sommano la svalutazione, il trionfo del mercato nero, l’isolamento geografico e culturale. Il suo manifesto politico può considerarsi un opuscolo scritto nel 1942 da Lucio Tasca col significativo titolo ‘Elogio del latifondo siciliano’. Come tante altre rivolte guidate dall’aristocrazia, anche il separatismo, lasciato a se stesso, si sarebbe concluso con un rigurgito di risentimento per il popolo e accordi più o meno favorevoli per gli agrari. Il livello dello scontro e la posta in gioco si alzano grazie all’appoggio degli Alleati, che di fronte agli esiti ancora incerti della guerra intendono togliere terreno ai partiti democratici rappresentati nel Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) e assicurarsi un baluardo anticomunista nel Mediterraneo. Si innescano così delle aspettative che, una volta deluse, rendono la questione separatista un’autentica mina vagante per il fragile Stato italiano ancora in guerra. A livello nazionale l’occupazione della Sicilia provoca la crisi del regime fascista. Il Gran Consiglio vota la sfiducia a Mussolini, che viene destituito e arrestato; segue la nomina di un nuovo ministero guidato dal generale Badoglio (25-26 luglio 1943). La firma dell’armistizio dell’8 settembre e la decisione di continuare la guerra a fianco degli Alleati modificano gli equilibri: l’Italia è diventato un Paese amico e il separatismo viene abbandonato, il 10 gennaio 1944 è autorizzata la ricostruzionedei partiti politici e il 12 febbraio l’amministrazione isolana è riconsegnata al governo italiano. Invano il “Comitato per l’indipendenza” chiede che alla Sicilia venga «risparmiata la sciagura di essere consegnata al cosiddetto governo Badoglio»; a Comiso, Vittoria, Noto e Agrigento scoppiano rivolte, le città rimangono per qualche giorno in mano agli insorti ma il velleitario sogno di politica internazionale – che vedeva nell’isola la 49ª stella della bandiera americana – è svanito.

Le ragioni di un separatismo “sentimentale” sono appoggiate da gran parte della popolazione, perché da molto tempo ogni siciliano le respirava con l’aria ed erano diventate quasi naturali. Come sempre quando si tratta della “nazione” siciliana, l’idea di fondo è che l’isola, naturalmente ricca di materie prime e con la bilancia commerciale attiva, sia stata sacrificata alle ragioni di un Nord che prima era Napoli e poi gli industriali settentrionali. Dal Nord sono arrivati il fascismo e la guerra, visti come follie che hanno causato disastri.  Quando si profila una nuova coscrizione obbligatoria, per la guerra che ancora continua sul continente, il rifiuto della patria italiana diventa ancora più radicale: tra il dicembre 1944 e il gennaio 1945 a Piana degli Albanesi,Comiso, Ragusa, Mazzarino, Vittoria, Gela, Catania scoppiano rivolte al grido “non si parte”.

Molto diverse da quelle del popolo sono le paure degli agrari, che temono il “vento del Nord” coincidente con le riforme realizzabili da un governo antifascista; e per la mafia, che pure è attenta a conservarsi delle vie di fuga, l’adesione al separatismo appare naturale: in parte per l’identificazione del movimento con l’antico ordine delle cose, e poi perché con il fascismo aveva fatto una brutta esperienza di cosa significasse uno Stato accentratore. Adesso il mercato nero è come un brodo di coltura, la mafia si ricostituisce in fretta e all’indomani dell’avventura separatista la troveremo saldamente insediata in posizioni di potere. Nel 1944 Finocchiaro Aprile imposta i suoi proclami sull’anticomunismo, quello stesso anno i decreti firmati dal ministro per l’agricoltura – il comunista Fausto Gullo – fanno partire il processo di unificazione nazionale dagli interessi dei contadini più disagiati, aumentando così le paure degli agrari. È infatti disciplinato l’ammasso dei cereali nei “granai del popolo” – subito sabotati dagli agrari – mentre il problema del latifondo viene affrontato con la proroga dei contratti e la riduzione dei canoni d’affitto. Nell’autunno di quell’anno è prevista l’assegnazione delle terre incolte, si stabiliscono nuovi criteri per la ripartizione dei prodotti fra proprietari e mezzadri: sono tutte decisioni che tolgono spazio al separatismo, il carattere reazionario del movimento viene a galla. In nome della distribuzione delle terre scoppiano rivolte nei paesi.

Per fronteggiare l’emergenza viene creato un Alto Commissariato coadiuvato da una Consulta regionale. Nel luglio 1944 il democristiano Salvatore Aldisio si insedia nella carica di Alto Commissario, con la collaborazione degli altri partiti riesce a rassicurare gli agrari e togliere argomenti ai separatisti: anche i comunisti accettano che in Sicilia i decreti Gullo vengano applicati solo parzialmente, mentre una Consulta regionale – non elettiva, insediata nel luglio ‘45 – prepara una bozza di Statuto. La scelta è fra l’autonomismo “riparazionista” di La Loggia e quello di sinistra, rappresentato dal progetto del socialista Mario Mineo, che limita le aree di intervento della Regione e formula un’idea di autonomia collegata a un piano di sviluppo economico.

Intanto nell’autunno del 1945 la situazione precipita. Senza l’appoggio degli Alleati i separatisti vedono svanire le possibilità di successo politico; gli appelli che Finocchiaro Aprile invia ai vari governanti – persino al papa – con richieste di aiuto per la costituzione della Sicilia a Stato sovrano, e l’avvertimento che i siciliani sono pronti a prendere le armi contro l’Italia, rimangono senza risposta. Riallacciandosi alle sue tradizioni l’aristocrazia caldeggia l’alleanza con le bande, Finocchiaro Aprile e Antonino Varvaro si oppongono: sono i più moderati e forse anche i più popolari fra i leaders separatisti, ma sono arrestati la sera del 3 ottobre lasciando via libera agli avversari.

Peggio ancora sarebbero andate le cose per Antonio Canepa, promotore e anima del cosiddetto esercito indipendentista nella Sicilia orientale, che rimarrà ucciso in circostanze molto equivoche. L’aristocrazia agraria che guida il movimento contatta i più pericolosi banditi. A Salvatore Giuliano viene proposto di assumere il comando della guerriglia nella Sicilia occidentale, in cambio di una fedina penale pulita e un ruolo direttivo nel nuovo Stato; a metà ottobre, il bandito Rosario Avila e i suoi uomini attaccano una pattuglia dei carabinieri uccidendone tre. È la svolta armata.

Tra la fine del ‘45 e l’inizio del ‘46 in Sicilia imperversa la guerriglia, a totale beneficio del blocco agrario-mafioso che riesce a dimostrare l’impotenza dello Stato e la possibilità di negoziare da posizioni di forza. La concessione dell’autonomia alla Valle d’Aosta (27 luglio 1945) e la costante pressione del terrorismo mafioso- separatista spingono ad accelerare i tempi. Lo Statuto che prevede un parlamento e un governo, quindi ampia autonomia legislativa, tributaria e di spesa, viene approvato con regio decreto del 15 maggio 1946: prima che fosse pronta la Costituzione, mentre le bande di Salvatore Giuliano (nella foto a destra tratta da siciliaindipendente.com) e dei Niscemesi assaltano le caserme e le Camere del Lavoro. Viene adottata l’interpretazione riparazionista che dell’autonomia dava Enrico La Loggia, in quanto regione povera l’isola avrebbe usufruito di un “fondo di solidarietà nazionale”; lo Statuto difende la Sicilia dallo Stato mentre ne invoca il soccorso, è ben attento a delineare lo spazio politico-amministrativo regionale. E, come all’epoca della rivoluzione del 1820, l’autonomismo isolano tutto centrato sulla supremazia di Palermo dice ben poco sull’autogoverno delle comunità, o sulla loro partecipazione ai processi decisionali.

L’isola riceve un trattamento privilegiato rispetto ad altre regioni non meno povere, come la Calabria o la Basilicata. Ma qui entra in gioco la classe politica siciliana, che con l’istituzione della Regione a Statuto speciale viene confermata nel suo ruolo di mediatrice delle risorse che dal centro vanno verso la periferia.

Nel 1946 il separatismo è ormai svuotato, lo Statuto regionale è diventato operativo prima che le eventuali tensioni innovative della Costituente possano metterne in pericolo la natura. Ma la Sicilia non è pacificata. Il clima è così incerto che il Girolamo Li Causi -comunista siciliano che per quindici anni era stato rinchiuso nelle carceri fasciste – decide di “entrare in clandestinità”: dorme ogni notte in posti diversi e una sera a Palermo, da uno dei platani di via Libertà, scende un uomo che consegna un messaggio. È un biglietto del bandito Salvatore Giuliano, il quale comunica che il movimento separatista non si sarebbe fermato e avrebbe distrutto i comunisti. Li Causi risponde con un articolo su «La Voce della Sicilia», scrive di riforma agraria e libertà dei contadini.

L’Autonomia siciliana: la ‘filosolia’
L’Autonomia, tanto ampia da essere davvero “speciale”, una volta raggiunta è stata edificata sotto il segno del privilegio che corrompe le coscienze e dei trattamenti particolari riservati agli amici. La gestione clientelare delle pubbliche risorse ha creato uno spazio occupato dalla politica, che ogni giorno manda un messaggio estremamente efficace: bisogna stare in fila e meritarsi il favore, fuori dai canali privilegiati non ci sono nemmeno le briciole. Quello siciliano non è un clientelismo particolare e derivante dall’iniziativa di singoli individui, ma di sistema: ha funzione di controllo politico, tende a permeare tutta la società, si fonda sull’assenza del concetto di diritto.

Solo un esempio, ma eloquente. Sono passati molti anni dalla sua istituzione, ma la Regione non ha mai varato una legge per regolare l’accesso ai fondi pubblici da parte dei centri culturali. Anno per anno vengono decisi i finanziamenti, e sempre c’è la replica dello stesso copione. Ogni partito ha i suoi protetti, l’ammontare delle cifre destinate ai vari richiedenti cresce o cala a seconda della forza variabile dei vari patroni: avendo tutto da perdere, quasi nessuno mette in discussione un sistema dove ogni cosa resta nel vago. Di questi finanziamenti usufruiscono anche associazioni che per statuto si ripromettono di studiare la mafia, e dovrebbero quindi insistere perché il denaro pubblico sia speso con rigore e trasparenza: se i centri antimafia dipendono dal favore politico, fino a che punto si sentiranno liberi nel loro studiare e magari denunciare? Anche qua, meglio rigare dritto e non farsi notare. Di diverso, rispetto agli Avvertimenti di Argisto Giuffredi, c’è solo un’apparente e fragile modernità che confonde i profili delle cose.

foto sopra e in prima pagina: opera di Enzo Patti

 

 

 

Amelia Crisantino

La breve storia della Sicilia

 

Di Girolamo editore

 


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