Senza cultura si va solo a sbattere

Mentre infuriano polemiche politiche e sociali su primarie, indagini della magistratura sulle solite ambiguità elettorali con ricorsi a strategie oramai troppo note, mentre Franco Grupi, esponente del Movimento dei Forconi, a nome di un popolo di contadini, di autotrasportatori, di persone ridotte all’indigenza, continua a urlare la sua vergogna, la sua indignazione di lavoratore che oggi, dopo cinquant’anni di lavoro indefesso per un pacco di pasta deve rivolgersi alla Caritas, e quindi trova legittimo imbracciare un fucile, i più noti e direi importanti giornali d’Europa aderiscono al “Nuovo Manifesto della Cultura” stilato da un nostro quotidiano economico-finanziario, il Sole 24 ore. Sembrerebbe un paradosso.
La “Cultura” non procura da mangiare, non da vestire, non il carburante per l’auto, nell’immediato non pare possa risolvere il dramma che l’umanità intera sta vivendo. Eppure una voce si solleva e dal mondo culturale, e dall’economia, e dal Movimento dei Forconi quindi dal mondo contadino e diventa una sola: la tragedia può risolverla soltanto una Rivoluzione Culturale.

I punti cardine su cui si snoda il Manifesto elaborato sono questi:

Una Costituente per la cultura; niente cultura, niente sviluppo. Cultura e ricerca, secondo l’art. 9 della Costituzione sono i capisaldi che vanno salvaguardati e procedono insieme.

Strategia di lungo periodo. Pensare a un’ottica di medio-lungo periodo, simile alla ricostruzione economica che sancì la svolta del Dopoguerra.

Cooperazione tra Ministeri. La funzione dello sviluppo sia al centro dell’azione di Governo. Collaborazione tra i Ministeri competenti.

L’arte a scuola e la cultura scientifica. A tutti i livelli educativi.

Pubblico-privato, sgravi ed equità fiscale. Pratica e cultura del merito, intervento dei privati nel patrimonio per una cultura diffusa.

Che a prendere questa iniziativa sia un giornale economico-finanziario italiano induce a riflettere. Intanto ci sono state più di mille adesioni, a parte i grandi nomi della cultura, i ministri Ornaghi, Profumo e Passera, ed esponenti di primo piano della scena europea come il commissario all’Istruzione e alla cultura Vassiliou e il ministro danese della Cultura Elbaek. L’Italia, e in grande misura l’intera Europa, devono oggi ritrovare la via della crescita, sfida che richiede un grande atto di coraggio.

Nell’opinione di molti la cultura è tutt’altro che una leva di crescita, piuttosto una fenditura che risucchia risorse e che è quindi destinata a subire tagli selvaggi in tempi di crisi. E non soltanto: nel suo intervento a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, Franco Grupi, interloquendo direttamente col sindaco di quella cittadina in nome e per conto di tutti i sindaci al mondo e di tutta una classe politica ha tuonato: “Signor Sindaco, Lei è in un posto da dove potrebbe fare molto, allora lo faccia subito! Quando a un popolo s’impone di fare il proprio dovere e non si rispetta il diritto costituzionale i suoi cittadini sono Sudditi, come Lei. E questa è una vergogna, una vergogna maggiore per chi si crede Intellettuale, perché ha speso anni di studio, ma le cose fondamentali della vita e della dignità dell’uomo non le ha capite”.

Cosa replicare? Un’aporia apparentemente incolmabile. Forse due piani diversi che vorrebbero pervenire alla stessa soluzione, un miglioramento generale della vita dell’uomo a partire dalla dignità. Alla presunzione del potere, carica di censure e di rinnegamenti, corrisponde nel singolo, nell’uomo reale, la grande tristezza, la privazione che si agita impazzita dentro il caos di pensieri schizofrenici, il futuro dell’umanità sembrerebbe divorato dalla voracità di un presente ipertrofico. La difficoltà di ogni dialogo che presuppone un ascolto costringe ad urlare mentre rende a sua volta più tragica la solitudine di fronte al proprio destino, al destino come assenza di significato. Si è lì senza riconoscere ciò che unisce e allora il più piccolo sgarbo diventa un’obiezione che fa crollare tutta l’impalcatura della fiducia. Ma l’incomunicabilità oltre che esasperare una solitudine personale, le dà un rilievo esterno, per cui essa diventa clima sociale esasperante. Questa autodifesa sociale del preconcetto che si para davanti come un muro d’incomprensione mi pare sia indiziata bene da un brano del Gorgia di Platone: “Callicle: Non so come, ma talvolta mi sembra che tu ragioni bene, Socrate, pur accadendomi quello che a tanti altri succede, di non rimanere pienamente persuaso. Socrate: E’ l’attaccamento alla mentalità comune del popolo, radicato nell’anima tua, che mi è di ostacolo”.

E’ la cultura che può “nutrire” il cambiamento, perché penetra nell’anima, nella ragione, e lo fa in profondità; non si può ripartire da formule magiche piuttosto da idee condivise ed economia reale, dalla lungimiranza e dalla voglia di riscatto, fuori dalla logica delle ideologie.

Come dimostrano gli studi prodotti in questi ultimi anni su iniziativa della Commissione Europea, e replicati a livello nazionale e regionale, il sistema della produzione culturale è un meta-settore industriale a tutti gli effetti, superiore per fatturato ai principali comparti del manifatturiero e alla maggior parte dei comparti del terziario avanzato; non a caso, già nel 2005 esso si attestava in Europa a un livello doppio di quello dell’industria automobilistica; per lo più questi stessi studi dimostrano chiaramente che la produzione culturale è uno dei maggiori e più promettenti terreni di coltura della nuova ondata imprenditoriale di prima generazione non soltanto in Europa ma anche in molte economie emerse ed emergenti. Ciò malgrado, in Italia, la cultura subisce tagli che rischiano di comprometterne la sostenibilità, mentre in Europa stenta a trovare uno spazio e un ruolo all’altezza del suo potenziale nella strategia di Europa 2020, come conferma purtroppo anche l’esclusione del patrimonio culturale dal prossimo “Ottavo Programma Quadro della Ricerca e Innovazione”.

E’ particolarmente singolare che ciò avvenga in un Paese come il nostro, che possiede un capitale culturale tangibile e intangibile maestoso e una identità nazionale legata proprio alle tematiche della cultura, nell’immaginario globale. In una fase in cui la ricchezza si genera soprattutto attraverso la capacità di dar vita a piattaforme digitali di contenuti che si inseriscono in modo sempre più coinvolgente nel quotidiano di tutti noi – dallo shopping all’informazione, allo svago, dallo studio all’organizzazione e alla gestione dei processi produttivi – l’elemento che alimenta queste nuove metodologie in rapidissima crescita soprattutto economica è appunto la cultura in tutte le sue molteplici forme, per cui i Paesi che sono ricchi di patrimonio storico-artistico come il nostro e sono disposti a mettersi in gioco sulla frontiera dell’innovazione coniugando creatività tecnologica e culturale possono costruire su tali premesse una leadership competitiva che può davvero avviare un nuovo e forte ciclo di crescita. Non è un caso se economie emergenti quali la Cina o il Brasile stanno investendo sullo sviluppo della propria industria culturale e creativa risorse ingentissime, e se alcune delle economie avanzate, ad esempio la Corea del Sud o l’Australia si stanno profilando in modo molto efficace e aggressivo proprio nei settori della cultura e della creatività, attraendo investimenti e talenti (questi ultimi, molto italiani!).

L’intervento dei privati nella gestione del patrimonio pubblico, dovrebbe diventare cultura diffusa e non presentarsi solo in episodi isolati e senza essere concepito come sostitutivo dell’intervento pubblico, ma fondato sulla condivisione con le imprese e i singoli cittadini del valore pubblico della cultura. Laddove il pubblico si ritira anche il privato diminuisce.

Provvedimenti legislativi a sostegno dell’intervento privato andrebbero poi ulteriormente sostenuti attraverso un sistema di sgravi fiscali che ben si armonizzerebbero con l’attuale azione di contrasto all’evasione a favore di un’equità fiscale finalizzata a uno scopo comune: il superamento degli ostacoli allo sviluppo del paese. Ecco perché risulta fondamentale un discorso economico in merito, “niente cultura niente sviluppo”, dove per “cultura” deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. E, di contro, per “sviluppo” non deve intendersi una nozione meramente economica, incentrata sull’aumento del Pil, che si è rivelato un indicatore alquanto imperfetto del benessere collettivo. La crisi dei mercati e la recessione in corso, se da un lato ci impartiscono una dura lezione sul rapporto tra speculazione finanziaria ed economia reale, dall’altro devono indurci a ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo. La cultura e la ricerca innescano l’innovazione, e dunque creano occupazione, producono progresso e sviluppo, è una condizione fondamentale per il futuro dei giovani. “Chi pensa alla crescita senza ricerca, senza cultura, senza innovazione, ipotizza per loro un futuro da consumatori disoccupati, e inasprisce uno scontro generazionale senza vie d’uscita” (Gilberto Corbellini).

Un recente studio condotto da Niklas Potrfke dell’Università di Costanza su 125 Paesi (Intelligence and Corruption, pubblicato a gennaio in “Economics Letters, vol. 114, n 1) ha messo in luce un altro aspetto importante da non sottovalutare: dove ci sono livelli di prestazioni intellettuali più alti, la corruzione, che è uno dei fattori che più danneggiano la crescita economica, è più bassa. Il capitale cognitivo è il fattore chiave per lo sviluppo economico di un paese. Negli ultimi decenni si è selezionata una classe politica decisamente scarsa sul piano culturale,mentre la “conoscenza ci libera dal pizzo”.

Tutti sappiamo quanto sia difficile, e in particolare chi ogni giorno combatte contro un fenomeno capillarmente mafioso e prepotente che crea disillusione, scetticismo, così che sfidarlo sembra tanto assurdo o esoterico quanto lo è sfidare la “realtà” stessa. Da qui a “non esiste alcuna alternativa”, il passo è breve ed agevole. Voglio ricordare quanto ha sostenuto, realisticamente, Arundhati Roy: “le grosse imprese commerciali e industriali hanno la loro personale scaltra strategia per trattare il dissenso. Con una minuscola parte dei loro profitti gestiscono ospedali, istituti educativi e fondazioni, che a loro volta finanziano ONG, università, giornalisti, artisti, cineasti, festival letterari e perfino movimenti di protesta. Usano la beneficenza per attirare nella loro sfera di influenza coloro che plasmano ed orientano l’opinione pubblica. È un modo di in penetrare la vita comune, filtrare la normalità, di colonizzare l’ordinarietà”.

Bisogna evidentemente trasformare la minoranza invisibile in minoranza visibile perché, come dice Franco Trupi “Minoranza non sia Minorazione”, e se la solidarietà non può bastare, ognuno di noi faccia la sua parte; per cambiare la cultura è fondamentale dare un segnale anche piccolo che parte dall’individuo, non girare la testa dall’altra parte. I poveri in Italia sono diventati circa otto milioni circa a cui va aggiunto un ulteriore 10%, circa 800.000 italiani, che risultano “impoveriti”, una forma di povertà quest’ultima meno immediatamente riconoscibile rispetto a chi vive per strada, ma non per questo meno grave. Un esempio per tutti: il pasto, che è uno di quegli aspetti che incide sul bilancio familiare e viene consumato nelle mense, probabilmente perché si preferisce mantenersi una casa, perdere anche quella significa perdere se stessi. Si tratta anche di momenti di socializzazione, si incontrano altre persone, si mangia insieme, e questo è un altro aspetto del frequentare le mense perché il problema, oltre che economico, è anche di rarefazione dei rapporti, delle relazioni. La povertà non è soltanto economica, le povertà sono molte, non univoche nelle motivazioni, negli sviluppi, eppure tutte inquietanti nelle possibili conseguenze.

Non esiste altra via se non una Rivoluzione Culturale, un ribaltamento di pensieri, atteggiamenti, opere. La cultura migliora il profilo affettivo delle persone, la loro spontaneità e l’autonomia, le capacità intuitive, la memoria, l’immaginazione e il senso estetico, tratti questi, che generano valori economici e sociali. Nuovi modi di guardare i problemi, che aiutano a trovare più rapidamente soluzioni adeguate; una maggiore differenziazione dei prodotti dei consumi e delle aspettative, una vitale messa in discussione di tradizioni conservatrici che solitamente generano diseguaglianze e discriminazioni sociali, senso d’identità e di appartenenza comunitari che favoriscono la cooperazione e, non ultima, un’attenzione personale più spiccata e qualificata per i valori spirituali, simbolici e immateriali.

 

 

 

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