Per un Sicilia senza clientele

In più occasioni, sulle pagine di questo giornale, chi scrive ha analizzato, spesso impietosamente, le cause del mancato sviluppo della Sicilia, rintracciandole in ragioni storiche, culturali, infrastrutturali e, più recentemente, nell’infimo livello dell’attuale classe politica. Poiché ogni analisi razionale della realtà ha lo scopo, in ogni caso, di leggere il contesto per individuare possibili direzioni del cambiamento e del miglioramento, trovo opportuno sviluppare alcune riflessioni di carattere propositivo che, superando la cultura del pessimismo, possano delineare una praticabile via di uscita dalla situazione attuale.
Non vi è dubbio che la Sicilia possieda risorse cospicue proprio nei campi che la post modernità ha individuato con massima evidenza. Una sommaria enumerazione di detto patrimonio vede al primo posto un ambiente naturale abbastanza sano, una vastissima superficie disponibile per un’agricoltura d qualità, un clima di particolare favore per almeno 8/9 mesi l’anno, un patrimonio culturale tra i più estesi e meno valorizzati del mondo, una posizione geo-politica di grande interesse, sovente declamata, ma quasi mai tradotta in strategie conducenti. Infine, ma non certo alla fine, la Sicilia dispone di un immenso patrimonio di giovani – che è valutato in ogni Paese del mondo come una risorsa straordinaria per il futuro – in larghissima parte altamente scolarizzati e specializzati ad elevato livello in misura superiore alla media nazionale che, com’è noto, si presenta al di sotto di quella dell’Unione Europea.

Non va dimenticata infine la presenza di quattro Università, di cui tre di antica tradizione, in grado di rispondere ai bisogni di conoscenza, intesa quale risorsa strategica, anche se, in molti casi, notevolmente distanti dalle reali necessità del mondo del lavoro (in nome di una malintesa autonomia del sapere) e, generalmente, ancora orientate a fornire titoli con valore legale che un tempo trovavano sbocco nel pubblico impiego, mediante il meccanismo dei concorsi. Ciò assicurava ai vincitori retribuzioni già commisurate ai ruoli che avrebbero ricoperto e, più in generale, destinate ad incrementarsi nel tempo attraverso meccanismi automatici fissati in contratti collettivi nazionali. Un mondo che, nel volgere di soli due decenni, appare oggi lontano quanto l’Impero Romano o il Medio Evo.
Questi elementi, uniti ad altri di valenza più culturale che provengono dalle migliori caratteristiche antropologiche dei siciliani, specialmente riscontrabili nelle nuove generazioni, quali la facilità di intrattenere rapporti umani, l’assenza di ogni forma di discriminazione rispetto alle diversità, la propensione all’adattamento e l’indubbio elevato livello dell’intelligenza media, possono rappresentare un patrimonio ricchissimo, non sempre e non nella stessa misura presente in altre parti, non solo dell’Europa ma del mondo.
Ogni genere di patrimonio, però, è per propria natura statico. Esso si trasforma in ricchezza solo in dipendenza delle scelte gestionali che lo interessano. Un patrimonio può essere sprecato e alla fine implodere e disperdersi quando non è supportato da una logica di nuovi investimenti oppure può espandersi e crescere, se impiegato in una direzione coerente con i grandi flussi di cambiamento ormai a conoscenza di tutti e non più solo di pochi isolati studiosi che, invano, per anni hanno chiaramente definito quale sarebbe stato lo scenario economico/sociale/ambientale alla fine del XX secolo.

Il tema della sfida del cambiamento si sposta così dalla ricerca delle risorse esogene all’impiego di quelle endogene e tale paradigma richiede due condizioni: una visione dello sviluppo verso cui tendere ed impegnarsi e una guida “politica”, intesa come scienza della scelta migliore, tra le tante possibili. La vera carenza siciliana risiede proprio nell’assenza dell’una e dell’altra condizione.
Non annoierò i miei consueti e pazienti venticinque lettori con le ragioni di ciò, poiché io stesso ed altri meglio di me ne hanno analizzato i motivi al punto che oggi la quantità di analisi di cui disponiamo in ogni settore afferente il tema del mancato sviluppo sembra essere divenuta un business fine a se stesso.
Individuare un modello di sviluppo vuol dire per una comunità come per una persona, comprendere le vocazioni che l’una o l’altra possiedono e non già pretendere di conformare entrambe a schemi preconfezionati, magari altrove, che si presentano come estranei o innaturali e conseguentemente votati al fallimento nel medio termine.
La pianura Padana, per esempio, ha conosciuto uno sviluppo eccezionale perché connesso e determinato da caratteristiche ambientali favorevoli alla crescita industriale: ampi spazi, disponibilità di acqua e quindi di energia elettrica, facilità dei collegamenti, vicinanza ai confini nazionali e quindi ai mercati esteri verso cui esportare.
La Cina o l’India, stanno basando, consapevolmente anche se con modalità diverse, il proprio sviluppo sull’enorme disponibilità di giovani, sull’elevata scolarizzazione degli stessi e sul superamento delle barriere spazio temporali, che avevano isolato quelle zone del mondo per secoli, attraverso la totale conversione di ogni aspetto socio economico dalla manualità alla virtualità, come già alla fine degli anni ‘80 Nicholas Negroponte aveva previsto nel fortunatissimo libro “Dagli Atomi ai Bits”.
Il Brasile come l’Australia, Paesi che per secoli si sono attestati sulle zone costiere, stanno utilizzando le tecnologie per mettere a frutto le immense distese dell’interno, rendendole irrigue, produttive ed interessanti come vere e proprie nuove frontiere verso cui canalizzare sia i propri connazionali che le enormi quantità di migranti che annualmente vi si riversanoSi tratta, come è sempre stato nei casi di successo, di processi immaginati – prima – e poi perseguiti con costanza, coerenza e impegno collettivo che, com’è noto, risulta esponenzialmente maggiore quando è assistito da una visione convocante, stimolante e condivisa.
Tornando alla Sicilia, si possono dunque delineare i contorni di un modello di sviluppo che faccia da volano alle singole iniziative fin qui disperse in mille rivoli improduttivi ed incoerenti come rigorosamente stanno solo ora (sic!) accertando i Commissari venuti da Bruxelles.
Appare utile rispondere ad alcune domande che orientino il ragionamento: che cosa il resto del mondo desidera e si aspetta dalla Sicilia? Come questo pezzo di mondo si colloca nell’immaginario collettivo internazionale? Qual è la specificità che si traduce in un vantaggio competitivo? Quali risorse siciliane non potranno mai essere delocalizzate o esternalizzate? E’ a partire dalle risposte a queste domande che si delinea un primo profilo di un modello di sviluppo, poiché restringendo il campo dei mille possibili modelli a un novero più limitato, emerge con chiarezza ciò che non vorremo/non potremo/non dovremo essere in futuro.
Ciò non vuol dire costringere le singole individualità a rientrare in visione obbligata, quanto, piuttosto, trovare la declinazione – presente in ogni iniziativa pubblica o privata – che vada nella direzione scelta come modello generale. Ma ciò vuol dire, allo stesso tempo, stabilire priorità di investimenti, percorsi formativi, politiche di personale, sviluppi di carriera, lasciando impregiudicata la libertà di singoli o di imprese di perseguire diverse opzioni in altre parti del mondo se, assolutamente, non compatibili o addirittura contrastanti con il modello territoriale scelto e condiviso.
Può una regione del pianeta, estremamente tipizzata dalle proprie caratteristiche naturali (insularità, clima, orografia, risorse energetiche, ecc) e dai propri “marcatori” culturali (inclinazioni, intelligenze, saperi, emergenze artistiche, strutture dei processi cognitivi e comportamentali) vivere e svilupparsi, senza bisogno di trasformarsi in ciò che non le è congeniale? Può a motivo di tutto ciò che ha ed è, essere soggetto attivo che “scambia” con il resto del mondo su un piano di pari dignità, valore e ritorno economico?
Le risposte sono sicuramente affermative perché abbiamo davanti le conseguenze del contrario e sarebbe un suicidio collettivo non tenerne conto. Si tratta allora di costruire e di procedere verso una corale presa di coscienza ad ogni livello sociale che si traduca in scelte politiche e gestionali, debitamente intransigenti e capaci di resistere ai mille appetiti, non sempre illeciti o criminogeni, che antepongono l’interesse singolo a quello collettivo.
Nel momento in cui spostiamo l’accento sul tema delle scelte, diventa cruciale l’analisi delle competenze necessarie ad operare svolte macro economiche che inevitabilmente diventano politiche e si traducono in provvedimenti, atti legislativi e regolamentazioni rigorose.
E’ illusorio pensare di poter in pochi mesi o in qualche anno disporre di un’intera classe politica, o più in generale, dirigente, che risponda in modo sovrapponibile a quanto richiesto. Si può solo – vista l’urgenza di invertire la rotta – puntare su alcune specifiche personalità, trasferitesi in questi anni altrove nei settori della politica, dell’economia, dei saperi, della finanza, garantendo loro condizioni di agibilità e margini di manovra non ipotecati da interessi di parte, di partito, di asfittiche conventicole, di ridicole mafie locali. Sarà necessario assicurare a tali personalità di alto profilo che troveranno professionalità, logiche, risorse, non più soffocate dal maleficio che presume irrealizzabile ogni cambiamento in Sicilia poiché impossibile ed illusorio. Occorrerà necessariamente chiedere – e ottenere mediante una diversa canalizzazione del consenso – a quanti in questi ultimi anni hanno avuto ruoli di governo attivo in Sicilia di ritirarsi dalla scena politica o dalle responsabilità più rilevanti, all’esercizio improvvido della quali va imputata, senza esimenti, l’attuale situazione.

A neutralizzare tali veri e propri ostacoli sulla via dello sviluppo dovrà proprio essere quella maggioranza di siciliani, non certo immune da colpe passate e presenti, che, resa consapevole da leadership efficaci, riconosca che un mondo non esiste più e uno nuovo ci sarà solo se sapremo costruirlo da protagonisti e non più da sicofanti. Un vero e proprio ricambio che non cada nelle ormai logore ed equivoche richieste di “rottamazione” o di “rivalsa generazionale”. Tali concetti da soli non sono assolutamente sufficienti a produrre un nuovo modo di sviluppare una governance rigorosa, generativa e generosa e intorno alla quale costruire nuove individualità, formatesi in un clima profondamente mutato e attrezzate in quanto a valori e a strumenti, per proseguire nei decenni a venire nella direzione del cambiamento.

 


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