Sicilia, a grandi passi verso l’abisso

Nel panorama politico di questi giorni, la realtà della Regione siciliana è sicuramente tra le più drammatiche del Paese. Posta in fondo a qualsiasi classifica nazionale e internazionale, con la percentuale di indagati e di condannati in assoluto più alta tra le istituzioni italiane, con una crisi di legittimità a partire dal suo massimo rappresentante, la Sicilia è sicuramente il luogo europeo meno desiderabile.
Contrariamente a ciò che si possa pensare e che sia stato immaginato in passato, la principale ipoteca che grava sulla più grande isola del Mediterraneo non è più quella determinata dalla mafia e dal suo tradizionale peso sullo sviluppo civile e sociale. Ampiamente contrastata, essa rimane un fenomeno criminale di grande attualità ma non più di quanto accade in tante altre zone del mondo. Il vero gravissimo handicap risiede ormai nell’assoluta inadeguatezza della sua classe dirigente e, massimamente, nell’infimo profilo della sua classe politica.
Dall’istituzione della Regione – “Siciliana”, si badi, non a differenza delle altre denominate, per citare solo due esempi, Lazio o Emilia Romagna, ma a significare quanto di più possibile vicino alla dignità di “nazione” -, le diverse generazioni di rappresentanti istituzionali non hanno mai particolarmente brillato, pur con le pochissime eccezioni che, proprio perché tali, confermano il convincimento di qualcosa di profondamente sbagliato che alligna nei ‘Palazzi’ del potere. Proverò a definire alcuni aspetti che possono essere ricondotti all’origine di tale considerazione.
La Regione siciliana nasce nel 1946, prima della stessa Costituzione Repubblicana, come compromesso volto a bloccare l’aspirazione, variamente ispirata, al separatismo rivendicato nell’immediato dopoguerra e che diede luogo a fenomeni sociali di grande intensità, a loro volta fonte di preoccupazione per la comunità nazionale, interessata non tanto da ragioni ideali, quanto dalla consapevolezza del rischio di perdere un territorio ricchissimo di risorse di ogni genere ed un sicuro baluardo contro il pericolo, allora reale, del comunismo, vista anche la posizione strategica “al centro del Mediterraneo”.
Nata dunque un quarto di secolo prima di tutte le altre Regioni italiane (che vedranno la luce nel 1970), dotata di una denominazione altisonante e di uno Statuto di dignità costituzionale tra i più avanzati del tempo, la Regione ha immediatamente prodotto una classe dirigente “ubriaca” a motivo di tanto potere (sulla carta) e sovente incline a deliri di onnipotenza di diversa natura. Ciò comportò sin dall’inizio l’accelerazione del ritardo sociale ed economico rispetto al resto del Paese, poiché larga parte di norme nazionali, per il tempo innovative, dovendo essere recepite attraverso specifica legislazione locale, diventarono merce di scambio politico e, soprattutto, motivo di differimento nel tempo del cambiamento. Innumerevoli sono stati i casi in cui leggi nazionali, sono diventate efficaci in Sicilia dopo anni e, spesso, con emendamenti e modifiche che ne ‘sicilianizzavano’, in alcuni casi depotenziandolo, lo spirito originario.
L’ampio reclutamento di deputati e di dipendenti – sia dell’Assemblea regionale siciliana che dell’Amministrazione – in ogni zona della Sicilia, hanno sovente comportato e “importato” nel capoluogo mentalità e stili di comportamento connotati da gradi molto diversi e spesso lontani di cultura, competenza, sensibilità e senso dello Stato, tirandosi dietro non solo amplissime clientele ma, in molti casi, rozzezza dei comportamenti, furbizie contadine, rivalsa delle province più lontane nei confronti della Città del potere, continue lotte per la conquista di leadership risicate e deboli, mai in grado di reggersi da sole e sempre costrette ad avere una sponda nazionale a cui cedere ampie quote di quella tanto sbandierata autonomia, in cambio del rafforzamento della propria posizione politica locale e della benevolenza romana a garanzia del proprio personale futuro.
E’ inadatta a questa sede un’analisi più dettagliata, peraltro rinvenibile in saggi e libri di grande acutezza, prodotti da osservatori interni ed esterni della storia siciliana recente. Qui appare sufficiente notare che, in Sicilia, delle molte cose che hanno avuto inizio poche sono state portate avanti, mentre pochissime sono state effettivamente realizzate. A parziale consolazione è nata così la ben nota definizione di “laboratorio politico” sempre attribuita a situazioni che, al pari di un campo di colture sperimentali, nascevano in Sicilia, spesso con costi altissimi, per essere sviluppate altrove.
Tale “giustificazione” ha legittimato le primissime esperienze di ‘compromesso storico’, la nascita di nuovi soggetti politici dopo il crollo del Muro di Berlino, i ribaltoni e i contro ribaltoni, provati prima nell’Isola e poi perfezionati e resi più sofisticati e quindi applicati con ben altri effetti nel resto del Paese.
Paradossalmente, le diverse classi dirigenti che si sono succedute, quasi sempre in modo endogamico e quindi, per definizione, sterile o tarato, sono andate fiere di ciò come una cavia di laboratorio che, avendone la consapevolezza, potesse andare fiera di essere stata vivisezionata e poi incenerita per rendere un servizio alla scienza.
In realtà da nessuno di questi “laboratori” la Sicilia, nel complesso, ha tratto qualcosa, a differenza di alcuni singoli personaggi che, proprio sull’onda di questa o di quella “sperimentazione”, hanno lucrato personali e cospicui, per quanto effimeri, vantaggi personali. E in merito a ciò non fa differenza, ad avviso di chi scrive, nemmeno il cosiddetto professionismo dell’antimafia, sul quale già Leonardo Sciascia, pagando un prezzo altissimo in termini di emarginazione civile che ne accelerò la morte, si era scagliato, prefigurando scenari inquietanti.
In Sicilia, dunque, ogni ragione del degrado – oggi assoluto e di quasi impossibile soluzione – è riconducibile alla Regione siciliana, intesa soprattutto nella dimensione di governo che mortifica ed annulla elevati livelli di professionalità presenti nei ruoli amministrativi che, pur sicuramente sproporzionati in termini quantitativi, presentano picchi di grandi capacità, e sono scientificamente resi inoffensivi o, a motivo delle modalità con cui sono state cooptate, complici o sodali.
L’apice di tale situazione è stato raggiunto, amaramente, proprio con le prime due esperienze di elezione diretta del Presidente della Regione. Sulla prima si detto quasi tutto ed è finita come sappiamo. Della seconda risulta ancora incomprensibile la sopravvivenza. Nata in spregio del consenso del popolare, responsabile di aver spaccato partiti e coalizioni in entrambi i campi, rea di aver portato al collasso l’ambiente, la sanità, l’istruzione e il lavoro, colpevole della più massiccia e scandalosa violazione della Costituzione in ordine alle modalità di accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione, posta all’indice dall’Europa per gli sprechi da una parte e il mancato utilizzo dall’altra, di immense risorse dell’Unione, messa alla berlina in ogni raffronto per la quantità dei dipendenti e dei dirigenti,denunziata costantemente da parte della Corte dei Conti e progressivamente mortificata dall’Organo di Controllo dello Stato, la Regione Siciliana (sic!) oggi è di fatto commissariata su ogni versante della propria attività istituzionale e gestionale.
Credo che in nessuna regione d’Europa esista oggi una condizione solo leggermente paragonabile, soprattutto in presenza di un livello di bisogni primari sempre più assimilabile a quello che un tempo si soleva a chiamare “terzo mondo”.
Mi sono sempre chiesto quali demoni notturni e meridiani possano agitarsi nella mente dei massimi responsabili di tale situazione drammatica: il terrore della perdita personale della potere e della libertà? La consapevolezza che i Siciliani hanno presentato storicamente soglie molto alte di tolleranza alla schiavitù morale e materiale? Il possesso di informazioni con cui ricattare ogni genere di nemico? Il poter fare affidamento su protezioni al vertice di piramidi inquietanti della vita nazionale e internazionale? L’avere creato una rete sotterranea di protezioni attraverso le risorse dilapidate proprio a tale scopo?
Forse non una, ma molte di queste ragioni mantengono ancora, abbastanza saldamente, sugli scranni più alti personaggi la cui sola immagine televisiva suscita repulsione e fa vergognare molti di noi di essere siciliani. Essi si permettono ancora una volta di designare candidati Sindaco delle maggiori città dell’Isola, di dare il proprio appoggio a parvenù della politica che sembrano usciti dalla pagine patinate di Class e di assumere, impunemente, la responsabilità di mantenere la Sicilia in uno stato di subalternità economica, civile e culturale, come mai sperimentato nella sua storia millenaria.
Non è lecito nell’esercizio di alcuna professione e tanto più nella vita politica, che è per definizione dialettica, sollecitare sentimenti di odio verso il concorrente o l’avversario e da ciò il Paese si sta a poco a poco emendando. Resta tuttavia legittimo un risentimento personale e politico, profondo e senza appello, verso personaggi che saranno ricordati in eterno per il male che hanno fatto e continuano a fare ad una terra di cui non sono degni e che prima o poi ne ricoprirà le ceneri. Spiace soltanto che, come nell’antico e saggio Egitto, non sia consentito cancellarne i nomi da atti e monumenti, come se non fossero mai esistiti, quasi ad esorcizzarne in ogni modo la memoria. O forse è meglio così perché il loro cattivo esempio possa fare da monito alle nuove generazioni, se verranno e, se mai saranno, finalmente, tali.

 


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