Consolo e la letteratura del dubbio

Il diritto all’indignazione dovrebbe essere codificato per rendere liberi quanti, da uomini liberi, detestano il politicamente corretto. Questa affermazione forte, forse fuori le righe, mi nasce spontanea leggendo, qua e là, i tanti commenti, post mortem, di intellettuali e politici su Vincenzo Consolo. Commenti ipocriti, carichi di luoghi comuni, dell’insignificante fraseologia che l’obbedienza a codici salottieri impone. Molta di quella gente che tesse le lodi dello scrittore defunto, che ne traccia profili poco veritieri, fino a ieri ne aveva parlato male, ne aveva sottolineato i difetti, ne aveva evidenziato i limiti. Perché, per chi non lo sapesse, Consolo era in verità un intellettuale profondamente antipatico, spesso incapace di riconoscenza e sempre pronto a manifestare l’aristocrazia di un sapere che ad altri mancava.
Mi si potrà dire che il mio giudizio potrebbe apparire blasfemo o dissacrante, ma se avrete la fortuna di confrontarvi con gente che l’ha conosciuto, come l’ho conosciuto io, e se questi vostri interlocutori metteranno una volta da parte la convenzione che ci porta a dire che tutto è buono e tutti sono buoni, non potrà che confermarvi quanto scrivo.
Detto questo e non fermandomi a questo, butto giù qualche breve riflessione, soprattutto sull’ultimo tempo di questo intellettuale anomalo, per alcuni aspetti o tratti salienti. Consolo non è stato mai un uomo facile, aveva coscienza del suo portato culturale e di questo non faceva mistero. Era un uomo che detestava l’approssimazione, la banalità e la rozzezza comportamentale e aspirava a raggiungere sempre nuovi traguardi. Nonostante la sua opzione ideologica a sinistra, era dentro se stesso un aristocratico che aveva orrore della plebeità. Il suo linguaggio carico di sperimentazioni stilistiche e di lirismo, dunque sempre ricercato, definito da qualcuno barocco, ma raffinato quel tanto da non sconfinare nella leziosità, era espressione di questa sua intima vocazione culturale che potremmo definire “non popolare”.
C’erano in lui tante certezze, la gran parte legittime, e per queste certezze internamente si interrogava spesso lasciandosi agguantare dal dubbio. Lo scrittore Consolo, era solo apparentemente l’uomo sicuro, la sua sfida insinuante era la conferma che le sue certezze erano figlie del dubbio. Aspirava al successo, certe acidità, spesso inopportune con chi il successo, a suo giudizio, l’aveva immeritatamente colto, erano manifestazioni palesi di tale modo di pensare.
Nello stesso tempo, era critico con se stesso, insoddisfatto desiderava ed ambiva di più. Questo travaglio interiore, il vedersi smentito dalla cronaca banale del tempo presente, aveva inciso profondamente sulla sua vocazione di scrittore. I suoi ultimi anni, mi sento di dire, sono stati segnati dalla constatazione dell’esaurimento di quella vena creativa che ha consentito di regalarci capolavori come “Retablo” o “Il sorriso dell’ignoto marinaio”. Il suo dramma, quello di avere coscienza di essere un grande della letteratura, ma di non potere scrivere il romanzo che lo avrebbe consacrato fra i grandi.

 


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