Roberto Saviano e la nuova Italia

Molto probabilmente Roberto Saviano non sarà mai considerato dalla critica un grande scrittore, ma difficilmente dimenticheremo il contributo di impegno civile che in questi anni, pur sull’onda del libro prima e del film dopo, l’autore di ‘Gomorra’ sta dando alla ricerca di un modo nuovo di essere italiani, svolgendo anche un importante ruolo di ambasciatore culturale nel mondo.
E’ ciò da italiano del Sud – emergendo da una folla di talenti sovente sprecati o costretti ad emigrare nei tanti altrove del mondo globalizzato – coniugando sentimento e ragione e arrivando così al cuore di più generazioni e di settori diversi del Paese.
La forza di Saviano risiede nella semplicità del proprio porsi rispetto a problemi giganteschi con una visione di una nuova umanità, di un nuovo linguaggio artistico, di un’inedita capacità di comunicare.
Confinarne pertanto l’azione culturale nel ristretto settore dell’impegno antimafia sarebbe riduttivo e ingiusto, poiché Roberto Saviano è un intellettuale del nostro tempo: non organico, fedele a se stesso e, certamente, dotato di coraggio fisico oltre che di onestà di pensiero.
Nel vederlo dialogare con il coetaneo Lorenzo Cherubini, classe 1966, in arte Jovanotti, si è avuta la percezione di ciò che potrebbe essere il nostro Paese se procedesse ad un radicale rinnovamento della classe dirigente in molteplici settori, a cominciare dalla politica ad ogni livello e dall’amministrazione pubblica. Se avesse cioè la capacità di invitare ad un ritiro operoso molti esponenti che, provenendo in molti casi da ‘carriere’ esclusivamente politiche, non sono mai riusciti a ‘respirare’ l’aria della realtà concreta, dei problemi della gente comune, delle paure e delle speranze che non fanno notizia e che pure costituiscono la vera anima di questo Paese.
I giorni che stiamo vivendo saranno ricordati come il tempo del più serio tentativo fatto dall’Italia per scrollarsi di dosso luoghi comuni, a volte persino simpatici, con cui il mondo ci vede. Chi scrive ne ebbe la precisa sensazione a Stoccolma, quando nel corso di un incontro con un esponente della Società Dante Alighieri – che diffonde in tutto il mondo la cultura italiana – trovò opportuno chiedergli cosa pensassero gli svedesi dei cambiamenti italiani. Era il 1996, il primo Governo Prodi – sorto dopo la storico intervento su MicroMega dal titolo “L’Italia che vogliamo” – sembrava aprire nuove prospettive che, pensavo, fossero osservate con curiosità anche in altre parti d’Europa. Eppure, mi fu risposto che dell’Itala contemporanea agli svedesi non importava nulla rispetto al Paese idealizzato, nel bene e nel male, dal cinema, dall’arte, dalla storia, dalla lingua. Come se dell’Italia rilevasse solo il passato e non il presente, come se il futuro dell’Italia consistesse nel non deludere quel passato in cui riposavano tante immagini sensoriali vissute personalmente o mediaticamente, di bellezza naturale, di valore culturale, di pregio del paesaggio, di qualità della vita, di clima e di carattere delle persone.

Un Paese da cartolina
Un Paese cartolina ‘condannato’ a restare tale per mantenersi interessante agli occhi del mondo. Probabilmente è questa la sfida più importante che l’Italia si trova a dovere affrontare: passare da Paese cartolina – fosca o affascinante che sia – a Paese credibile, capace di rispettare regole internazionali, di assicurare pari opportunità ai propri cittadini, di valorizzare il merito e di riconoscere la responsabilità, rifondando se stesso sull’autonomia dei comportamenti individuali e collettivi.
Un’opera ciclopica che non sarà certo un governo tecnico o un’intera legislatura ordinaria ad avviare, poiché le pietre da costruzioni provengono da altre cave. Sono le cave della scuola, dell’università, della formazione, della cultura aziendale, della cittadinanza attiva e di quella, ancora poco divulgata, organizzativa. Purtroppo in quelle cave da decenni lavorano operatori sottopagati e, spesso, inadeguati, frutto di compromessi sindacali, immissioni ope legis, perpetuazioni nepotiste ed endogamiche, logiche ‘occupazionali’ tout court e non professionali, nel senso pieno che tale aggettivazione richiama.
Un Paese in grado di essere coerente, evitando nei giorni stessi in cui cerca di costruire regole, di consentire che sulla televisione pubblica passino pubblicità assolutamente contraddittorie rispetto a valori sociali, molti dei quali, non casualmente assurti a dignità costituzionale.

Lo ‘stile’ del Governo Monti
Il Governo Monti, pur tra molte contraddizioni, sta iniziando a dare segnali di comportamento politico nuovo ed esempi personali di grande dignità, restituendo quel minimo di autorevolezza che occorre manifestare, specie quando si chiedono sacrifici consistenti e rinunzie a privilegi, divenuti per abitudine diritti di casta.
Ma il Governo Monti sembra apparire solo una parentesi, un bagno di realtà durante il quale è stato evocato un modello di governance e uno stile di comunicazione che non risiede nelle istituzioni, ma è il portato di singole storie personali, accademiche e professionali del Presidente e dei Ministri. Quindi, il rischio che, quando andranno via le persone, vadano via anche lo stile e la professionalità è altissimo. Ben oltre le scelte di schieramento che farà la maggioranza degli italiani, la preoccupazione è che la qualità dei rappresentanti e dei governanti che seguiranno non si discosterà molto da quella delle epoche pre-Monti.
Non mi risulta, infatti, che in questi mesi le più significative forze politiche italiane stiano coltivando nuovi talenti, stiano promovendo occasioni trasparenti di selezione dei propri quadri, si stiano adoperando per proporre al Paese, quale che sarà la legge con cui andremo a votare, volti nuovi, qualificati, verificati nella capacità di ricoprire con competenza (l’onestà non voglio neanche richiamarla perché sarebbe assolutamente ridondante) ruoli di governo o di opposizione.
Il mio timore è che, trascorsa l’esperienza Monti, i partiti si affrettino a circoscriverla, ad etichettarla, a beatificarla magari, ma, certamente a congelarla nel ricordo, come il governo di un momento particolare, nascondendo in mille modi che esso fu l’effetto della loro stessa inadeguatezza.
Vorrei esser ancora più esplicito: non sto dando un giudizio politico di questo Governo, nei confronti del quale nutro perplessità che mi auguro i giorni e i risultati futuri provvederanno a rimuovere. Mi riferisco piuttosto al ‘modo’ con cui tale esperienza si sta portando avanti, puntando su un obiettivo ben definito e dichiarato: traghettare il Paese verso la post modernità.
Non vi è dubbio che alcune specifiche circostanze sostengono questo ‘modo’. Innanzitutto, tranne forse uno o due esponenti, i componenti del Governo Monti, Presidente in testa, non sono interessati a ripetere l’esperienza che considerano di servizio al Paese (una sorta di servizio militare si sarebbe detto un tempo o civile, seppur volontario, diremmo oggi) che ha una data di inizio e una di termine.
In secondo luogo, l’assoluta autorevole libertà del Presidente del Consiglio di scegliere i propri collaboratori (tale infatti è il ministro a livello individuale, visto che l’Organo Istituzionale è il Consiglio) senza alcun condizionamento da ex “manuale Cenecelli” ma puntando alla riconosciuta integrità e competenza, ed ai risultati conseguiti nella propria vita civile/professionale. Infine, ma potremmo continuare a lungo, l’inaugurazione di una politica di comunicazione priva di gossip, fughe di notizie, smentite, scuse tardive ed ipocrite rispetto ad ‘uscite’ infelici, quando non addirittura irriguardose, rozze o volgari.

La ‘Rivoluzione’ dei comportamenti
Perché tutto ciò non rimanga nel regno di un kantiano “dover essere”, occorrono modifiche istituzionali profonde, coerenti e da condividere largamente, quali l’impossibilità di reiterare il mandato politico ad ogni livello, il rafforzamento dei poteri del Presidente del Consiglio, le immediate dimissioni di componenti del governo, anche sfiorati da sospetti circa la propria onorabilità, riferendo la medesima anche a comportamenti in Italia sottovalutati a differenza di altri Paesi, quali irregolarità fiscali o contributive anche ‘lievi’.
Il lettore provi ad immaginare un processo simile che, a cascata, si riverberi su tutte le istituzioni, le magistrature, i luoghi di responsabilità politica, amministrativa, gestionale del settore Pubblico, una nuova sensibilità che restituisca a termini quali ‘candidatura’ o ‘candidato’ il vero significato di bianco, pulito, senza ombre o macchie nel proprio passato. Una nuova etica del governo degli altri che richieda di essere ‘migliori’ di coloro che si ha la pretesa di rappresentare e ciò – sia chiaro – ben a prescindere dal censo, dal livello di istruzione, dalla notorietà, dal genere o da altro.
Un Paese in cui essere stato sindaco, deputato, ministro o sottosegretario non apra “di diritto” e per sempre a successivi incarichi riparatori o dati a titolo di indennizzo, ma che configuri intorno a chi li ha rivestiti, rispetto e gratitudine, oltre ogni legittima appartenenza.
Non credo di aver evocato l’ennesima utopia poiché quanto descritto è esattamente ciò che avviene in tutti i Paesi occidentali, in particolare in Europa o negli Stati Uniti dove nessuno si è mai curato di sapere quale sia stato il destino dei Segretari di Stato (ministri) di Kennedy, Clinton o Bush o di come assicurare “la vecchiaia” alla Thatcher, a Blair a Zapatero o “un futuro politico” ai rispettivi ministri e collaboratori.
Ho la netta sensazione che segnali di questo genere, una volta divenuti costume ed identità nazionale, restituiranno all’Italia, ben più che qualche punto di spread, una nuova dignità di popolo e di nazione insieme, in grado di farne apprezzare il presente e il futuro e non più, soltanto, di rimpiangerne un passato edulcorato e forse mai veramente esistito. Tutto ciò si chiama reputazione e, quando essa va oltre gli esponenti di un occasionale momento storico (come fu per esempio la stagione dei Padri Costituenti o l’intervento di De Gasperi alle Nazioni Unite) , si iscrive nel “Dna” di un Paese e si pone quale pietra angolare del suo benessere civile, sociale e – non ho voluto certo sottovalutarlo – economico e finanziario.
Un tale progetto culturale è in grado di modificare un Paese difficile e articolato come l’Italia, soprattutto quando diventa modello chiaro e privo di ambiguità o distinguo – pur restando aperto e migliorabile – per quelle nuove generazioni cui stiamo dedicando i sacrifici di questi giorni e dei prossimi anni. Forse di ciò e di poco altro, viste le grandi responsabilità che la nostra generazione di ex spensierati baby boomers ha nei loro confronti, esse ci potranno essere grate, perdonandoci di aver lasciato per decenni che questo Paese si riducesse nello stato che conosciamo.

 

 

 


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