Monti, finalmente un discorso da statista

Comunque la si pensi, il discorso pronunciato ieri da Mario Mon a Reggio Emilia, in occasione del 215° anniversario della Festa del Tricolore, che proprio in quella città fu esposto per la prima volta, ha evocato i ricordi di altri memorabili interventi di protagonisti della storia italiana.
Chi scrive ha manifestato nei giorni scorsi ampie riserve sulla manovra dell’attuale Presidente del Consiglio e molte perplessità ancora ne animano la riflessione, Va tuttavia riconosciuto che a Reggio Monti ha parlato un linguaggio che nel nostro Paese era assente da decenni. Un discorso durato 33 minuti, durante i quali, con un linguaggio più profondo e più sentito di quello usato al Parlamento, è stata compiuta la più ampia e concreta analisi del passato, del presente e del futuro del nostro Paese.
Forse la migliore e più attenta ricostruzione della storia unitaria, con la straordinaria capacità di rintracciare in Cavour e in Garibaldi “politico disordinato ma visionario” e in Mazzini, aspri avversari in diversa misura l’uno dell’altro, una radice condivisa e un comune sentire circa la visione dell’Italia e dell’Europa. Più di mille manifestazioni svolte nell’anno appena concluso, non sono riuscite in ciò che Monti ha saputo evocare, nel segno dell’unità presente e futura del Paese.
Quale e quanta distanza siderale dai toni dell’attuale classe politica! Come risalta il nanismo dei nostri attuali rappresentanti al Parlamento (pochissimi esclusi) dinanzi a chi ha avuto la forza di dire:”dobbiamo tutti studiare di più”.
Non è l’ingiunzione di un professore, ma la spinta ideale di uno statista che comprende come il divario tra l’Italia e l’Europa e tra le stesse regioni risieda innanzitutto nell’aver abbandonato la strada della riflessione, dell’approfondimento, nella preparazione e nella conoscenza da parte di singoli, di istituzioni e di organizzazioni. E’ la grande lezione di Antonio Gramsci che amava dire: “Studiate, studiate e, ancora, studiate”.
Per la prima volta, dopo decenni, il senso di responsabilità nei confronti delle generazioni future è tornato ad essere proclamato come un bene comune da tutelare e da promuovere, ad ogni costo. E’ la grande lezione di Alcide De Gasperi che definiva il confine tra il politico e lo statista proprio nel fatto che il primo traguarda se stesso e le proprie azioni alle prossime elezioni, mentre il secondo guarda al futuro delle generazioni successive e considera quanto in proprio possesso, pro tempore, solo in un “prestito” ricevuto dalla generazione precedente e da restituire, accresciuto e fertile a chi verrà dopo.
Anche la nuova filosofia della lotta all’evasione fiscale, finalmente uscita dall’acrimonia vendicativa di certa sinistra e dall’ipocrisia del centrodestra, è stata posta nella luce più giusta che pone non lo Stato nella sinistra funzione del predatore, ma riconduce al singolo evasore, in quanto tale e non in quanto “ricco”, il vero obiettivo da colpire.
I severi richiami ad una questione morale non più riferita solo ai partiti ma all’intera società italiana nel suo complesso hanno superato gli scontati luoghi comuni e la tanta retorica al riguardo e hanno, per pochi secondi, fatto intravedere il volto segnato di Enrico Berlinguer
Il passaggio relativo a “far saltare il collo di bottiglia” è stato poi di una potenza evocativa senza precedenti e destinato a diventare linguaggio comune, figurando una visione di rottura e di discontinuità con il passato difficile da annunciare con lo stesso tono sereno delle altre parti del discorso.
La domanda su “ che cosa vogliamo essere tra dieci anni” – capitolo primo di ogni manuale di leadership – è apparsa ieri, matura e compiuta, come l’annuncio di un nuovo stile di governo che presidia il presente e al tempo stesso sa già leggere i segni del futuro e prepararsi ad esso. Ed è parso quasi di vedere quei giovani che nel 2061 dovrebbero festeggiare i 200 anni dell’Italia nello stesso luogo e intorno a quelle stesse bandiere.
Che cosa è allora la politica, se non la capacità di e-vocare idee che parlano al cuore e alla mente delle persone e di con-vocare intorno a quelle consenso ed energie per trasformarle in realtà ?.
Non sarà facile, quando tornerà il momento di dare la parola agli italiani, di rivolgersi ad essi con l’arroganza di Berlusconi, la doppiezza di Casini, la “disinvoltura” di Fini, il fare ruspante di Bersani, la rozzezza di Di Pietro, la volgarità di Bossi o il velleitarismo “ispirato” di Vendola, che tuttavia, sul piano della pienezza dei contenuti e della capacità evocativa, ma solo su quelle purtroppo, è apparso ieri essergli il più simile.
Non sarà facile riabituarsi alle banalità, alle genericità, all’incultura se non addirittura all’ignoranza di decine e decine di esponenti politici spesso professionisti della stessa e nulla più, che tenteranno di ascriversi i meriti che, nel bene o nel male, saranno stati solo e soltanto di Mario Monti e del Presidente della Repubblica, suo primo mèntore ed ispiratore.
Se non ancora visibile negli effetti sul Paese, attanagliato dalla drammaticità della crisi e preoccupato per il proprio presente, la rottura si è già consumata tra due opposte visioni e pratiche dell’arte di governare e nulla sarà più come prima.
Mai come oggi si impone ai partiti, a tutti i partiti, di voltare pagina, procedendo al rinnovamento generazionale e culturale dei propri esponenti, dei propri leaders, dei propri candidati. E, pazienza per chi sarà rimasto eterno “secondo”.
Mai come oggi si impone la necessità di un Parlamento che agisca da nuova Assemblea Costituente, in un clima simile a quello in cui maturò la stesura della Carta, quello cioè di un’ Italia uscita semidistrutta ma più matura dalla guerra, portando sui quei banchi giovani menti, brillanti intelligenze e culture estranee sino a pochi anni fa e oggi tra di noi con un grande contributo di ricchezza e fecondità in ogni senso per lo sviluppo del Paese.
Forse, mentre non ce ne accorgiamo, sta veramente finendo un mondo e ne sta cominciando uno nuovo e Mario Monti, consapevole di poterne essere il traghettatore, sa bene che nel nuovo potrà introdurci, ma non potrà e non dovrà entrare, sottraendosi, com’è nel costume che finora lo ha distinto alle lusinghe di questa o di quella parte.
Di lui dovrà restare il ricordo di un uomo che il Paese ha saputo trovare nel momento più difficile dal ‘45 ad oggi e la cui più grande vittoria non sarà stata né per sé, ne per la sola Italia in Europa, quanto per aver indicato ai giovani che verranno la strada verso lo stile e la sostanza di una nuova identità di politico e di statista, strada in cui egli sta lasciando tracce personali significative che non potranno che essere seguite.
Procediamo allora, ciascuno con le proprie legittime posizioni politiche o culturali sul consenso/dissenso a questo Governo, a fare la nostra parte nel dovuto ed anche aspro dibattito democratico, ma non dimentichiamo di star vivendo in questi mesi, da contemporanei e da testimoni oculari, un grande rito di passaggio della nostra storia nazionale. Nei momenti più bui che non mancano mai nella vita di una comunità, potremo un giorno raccontarlo ai nostri nipoti perchè sappiano orientarsi e, a loro volta, comprendere che prima di ogni divisione politica, il primato dell’uomo, della sua intelligenza e della sua capacità di sogno, rimarranno sempre l’unica luce cui fare riferimento nella notte della civiltà.

 

 

 


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