La Strage di Castellammare del Golfo

Con il 31 dicembre 2011 si chiude l’anno delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia che, ancora una volta, come avvenne allora nel lontano 1960 in occasione delle celebrazioni del centenario, e così come opportunamente riporta in un precedente articolo di questo giornale Pasquale Hamel, sono state ora come allora, un’occasione mancata. Celebrazioni caratterizzate da vuota retorica e da vacui trionfalismi senza mai scendere nel merito di una obbiettiva rivisitazione storica e squarciare così il velo su verità ed avvenimenti che per 150 anni ci sono state sempre nascoste e secretate da storiografie compiacenti e di regime
Verità negateci dalla storiografia ufficiale e scolastica per cui Garibaldi non fu tanto un eroe più di quanto lo si è dipinto sinora, che Vittorio Emanuele non fu affatto il re “galantuomo” riportato enfaticamente sui libri di storia e che i piemontesi non furono affatto i liberatori, ma senza pietà conquistatori e protagonisti di eccidi e sopraffazioni nei confronti delle genti del Sud e che, conseguenzialmente, portarono ad una mai metabolizzata Unità d’Italia.
I fatti d’arme a partire dal 1860 in poi, i plebisciti farsa e la proclamazione del regno d’Italia avvenuta il 17 aprile 1861 importarono per il Sud e la Sicilia non una liberazione, ma una vera e propria conquista in cui i piemontesi si distinsero per ferocia e brutalità, rendendosi protagonisti di inenarrabili massacri che costarono alla fine in una vera e propria guerra civile tanti più morti di tutte le guerre del Risorgimento I siciliani e i meridionali impararono così, a proprie spese, a conoscere questo singolare modo di essere liberati e affrancati dalla tirannia dei Borbone, prima con gli eccidi di Bronte, di cui si rese protagonista, su mandato di Garibaldi, Nino Bixio, e poi con la rivolta di Palermo (anche questa puntualmente ignorata dalla storiografia ufficiale e dai testi scolastici) del “Sette e Mezzo”( durò infatti sette giorni e mezzo) che avvenne nel settembre 1866 con miglia di morti e con Palermo messa a ferro e a fuoco e tenuta in stato d’assedio per diversi mesi dal generale Raffaele Cadorna, padre di quell’ancor più famoso Luigi, artefice della disfatta di Caporetto.
I piemontesi nei loro processi di “liberazione” e di “esportazione della democrazia”, come si direbbe oggi, non andarono troppo per il sottile, considerando “barbari ed incivili” come li definì in pieno parlamento il generale Giuseppe Govone per giustificare il suo operato e che, decretando nell’Isola, lo stato d’assedio e la dittatura militare con centinaia di fucilazioni e migliaia di arresti e decine e decine di paesi posti in stato d’assedio, guidò la repressione alla ricerca dei renitenti di leva. Il generale Govone morirà suicida forse per il rimorso delle sue esecrabili nefandezze, nella sua casa di Alba nel gennaio del 1872, guarda caso, esattamente dieci anni dopo gli eccidi della “rivolta dei Cutrara” di Castellammare del Golfo perpetrati dai suoi soldati nel gennaio del 1862 e che in questo contesto ci accingiamo a ricordare.
“Barbari e incivili” definì i siciliani il generale Govone sulla stessa lunghezza d’onda del massacratore di Bronte, Nino Bixio, che in una lettera inviata alla moglie, a proposito della Sicilia, così ebbe a scrivere. “Un paese che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”. “Barbari e incivili” ossia gente inerme, uomini, vecchi, donne e bambini che ebbero, prima a Bronte e poi a Castellammare del Golfo, il solo torto di trovarsi sulla strada di queste razziste belve sanguinarie. Significativo, a tal proposito, fu quanto avvenne ai primi di gennaio del 1862 con gli avvenimenti passati alla storia, e di cui se ne ha scarsa memoria, come la “ rivolta dei Cutrara” e che ricorrendone il 150° anniversario alcuni cittadini castellamaresi in questi giorni si accingono con l’impegno della “Associazione culturale Nostra Principalissima Patrona” a celebrarne il ricordo e a commemorarne i morti.
Il primo gennaio del 1862, a poco meno di un anno dalla proclamazione del regno d’Italia, buona parte degli abitanti di Castellammare del Golfo, stanchi delle sopraffazioni e dei soprusi subiti in così breve tempo, scese in piazza al grido di “abbasso la leva morte ai Cutrara”
La causa scatenante della rivolta fu data, appunto, dall’introduzione della lunga leva militare obbligatoria (dalla quale sotto i borboni i siciliani erano esenti) la cui legge istitutiva, pubblicata dalla Gazzetta Ufficiale del 30 giugno 1861, prevedeva discriminatamene che i figli dei poveri non potendosi comprare l’esenzione, prevista dalla legge, erano costretti ad una lunga leva di ben 5 anni, mentre, al contrario, ai figli dei ricchi appunto i Cutrara (cappeddi o galantuomini), potendoselo permettere e pagando profumatamente, ne potessero essere esentati.
Il primo gennaio 1862, esattamente 150 anni addietro, gran parte della popolazione capeggiata da due popolani, Francesco Frazzitta e Vincenzo Chiofalo, insorse contro questo stato di cose e contro queste ingiustizie. Dopo avere portato una bandiera rossa al centro del paese si pose alla caccia dei notabili locali appunto i “cutrara” simbolo di queste discriminazioni e di questi privilegi. Furono assaltate la abitazioni del commissario alla leva, Bartolomeo Asaro, e del comandante della guardia nazionale, Francesco Borruso, catturati ed uccisi e le loro case bruciate. Eccessi esecrabili di una popolazione esasperata da vessazioni ed ingiustizie.
Fatti che non trovarono successivamente giustificazione nelle rappresaglie e negli eccidi da parte dei piemontesi sbarcati su due navi da guerra con centinaia di bersaglieri nel porto di Castellammare, inviati dal generale Govone al comando dal generale Pietro Quintino, ex garibaldino. Militari che, anziché porsi alla caccia dei colpevoli, non trovarono di meglio che passare per le armi e fucilare, in dispregio ad ogni elementare norma di umanità e legalità, vecchi, donne e persino un’innocente bambina di appena 9 anni, Angela Romano. Uomini donne e una bambina rastrellati dalle truppe piemontesi in contrada “Villa Falconeria”, alla periferia del paese.
Gli altri fucilati alle ore 13 di quel maledetto venerdì 3 gennaio 1862 furono Mariano Cruciata di 30 anni, Marco Randisi di 45 anni, il sacerdote Benedetto Palermo di 46 anni, la contadina Anna Catalano di 50 anni e i vecchi Angelo Calamia e Antonino Corona entrambi di 70 anni.
A distanza di poco meno di due anni si ripetevano a Castellammare, ad opera dei piemontesi, con pedissequa ferocia e con una sconcertante analogia e crudeltà, i fatti e gli eccidi di Bronte perpetrati da Nino Bixio contro ogni aspettativa di libertà, di giustizia e di affrancamento dalla miseria che avevano invocato i siciliani all’arrivo dei garibaldini prima e dei piemontesi dopo. Di recente, in memoria di quagli avvenimenti le amministrazioni comunali di Castellammare del Golfo e di Gaeta hanno deciso di intitolare una via cittadina ad Angelina Romano la più giovane delle incolpevoli e inconsapevoli vittime di quell’esacrabile eccidio
La rivolta di Castellammare del gennaio del 1862 fu poi, come ricordato all’inizio, propedeutica della grande rivolta palermitana del settembre del 1866 così detta del “Sette e Mezzo”, che costò miglia e migliaia di vittime a causa della repressione piemontese. Rivolte puntualmente ed ipocritamente secretate e ignorate dai testi scolastici e dalla storiografia ufficiale. Questo, ancora una volta, fu il contributo di sangue innocente dato dai meridionali e dai siciliani alla causa dell’Unità nazionale. E proprio per questo sarebbe stato più giusto, lo scorso anno, oltre che festeggiare e celebrare enfaticamente e vacuamente i 150 anni dell’Unità d’Italia, ricordare quei morti e quelle vittime innocenti che furono immolate, loro malgrado, al processo unitario.
Ed è quello che con molto merito per rimuovere una damnatio memorie che per lungo tempo li ha condannati all’oblio stanno facendo in questi giorni i cittadini di Castellammare, commemorando e ricordando le vittime della rivolta dei Cutrara del gennaio del 1862. In piena sintonia con quanto sosteneva Leonardo Sciascia: “Questo è un paese senza memoria e io non voglio dimenticare”. Ed è per non dimenticare che i castellammaresi sono, con questa ed altre future iniziative, alla costante ricerca di una memoria storica perduta.

 

 

 

 


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