Il Natale tra guerre & speculatori

“È il terzo Natale di guerra!. Fa freddo. Nella maggioranza delle case, in città come in campagna, ci si scalda con le stufe. Carbone e legna si fanno sempre più rari. Ci eravamo trasferiti a Temi. Mamma, quando poteva, mi faceva avere, da qualche paesano, un po’ di pane e di uova. Per riscaldarci preparavo durante tutta l’estate delle palle di carta. Si metteva tutta la carta e la cartaccia in un mastello di legno con un po’ d’acqua, poi si strizzava ben bene e se ne facevano delle palle. Bisognava lasciarle per un bel po’ al sole perché diventassero dure, e poi d’inverno si bruciavano al posto della legna. Avevo scoperto che se ci mettevo dentro i noccioli delle pesche o delle prugne, un po’ di aghi di pino o di polvere di carbone, le palle duravano di più, davano più calore e anche un po’ di buon odore. Ci si doveva accontentare.La cenere della stufa, ancora calda, si metteva in un recipiente di rame per scaldare il letto e le mani.Faceva molto freddo. Forse sentivamo tanto freddo anche perché mangiavamo poco.
Avevamo le mani sempre piene di geloni”.

Miriam Mafai, Natale del ’42

Me ne hanno raccontati tanti di giorni di Natale degli anni di guerra. Di molti ho visto immagini, letto libri, ascoltato testimonianze. Non immaginavo di viverne uno anch’io, nato negli anni in cui in Italia scoppiò la pace e il benessere economico vero, fatto di cose concrete e non dalla ricchezza effimera di derivati e di speculazioni finanziarie.
Da quei racconti trasparivano rinunzie, sacrifici e soprattutto il pensiero a figli, mariti, fidanzati lontani impegnati sui diversi fronti del conflitto. E, poi, la domanda negli occhi di tutti: “Quando finirà?” e la risposta nella grande umanità di Eduardo de Filippo “Ha da passa’ a’ nuttata”.
Da qualche giorno quei racconti, quelle emozioni, mi tornano alla memoria, sollecitati da immagini, notizie, espressioni e scene di varia umanità a cui mi capita di assistere.
E’ un Natale di guerra quello che ci apprestiamo a vivere. Ha le stesse incertezze di allora, le molte lontananze, le tante assenze, l’ansia per i giovani, ancora una volta… al fronte. Solo che la domanda che ciascuno si pone oggi è un’altra: “Finirà ?”. E stavolta la risposta appare impossibile da trovare perché prevale la sensazione di un mondo al capolinea senza che se ne annunci, anche da lontano, un altro migliore, come è sempre stato anche nei momenti più bui della storia.
Una cappa pesante di paura per i mesi che verranno si estende su famiglie, giovani, gruppi sociali, lavoratori, vecchi e, soprattutto, nuovi poveri. Prevale una rassegnazione forte, unita a tanti complessi di colpa: abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità? Dove abbiamo sbagliato? Quando ci siamo illusi che il mondo non potesse che progredire? Quando abbiamo proposto ai nostri figli la lunga strada degli studi, certi che li avrebbero tutelati nel futuro? Quando abbiamo investito ogni energia nell’acquisto di una casa, di un elettrodomestico che avrebbe progressivamente liberato le donne da attività millenarie? Quando abbiamo creduto che i rappresentanti da noi eletti avrebbero lavorato per costruire garanzie e tutele dove le stesse fossero deboli o assenti?
Oggi ci viene rimproverato di essere stati cicale anziché formiche, pur sapendo che non è vero, perché nonostante i salari più bassi d’Europa, gli italiani hanno comunque risparmiato in altro modo, investendo soprattutto nella casa e sugli studi dei figli, non immaginando che proprio l’una e gli altri sarebbero stati i primi bersagli di ogni semplicistica manovra fiscale.
Altrove, sono stati sperperati denari e risorse di ogni genere, in complicità inconfessabili tra politica, finanza, grande impresa e tra queste – e sovente – la criminalità organizzata pronta a fornire capitali sporchi cui una ridicola legge sull’antiriciclaggio non ha mai fatto neanche il solletico, stante l’assoluta mancanza di ogni etica da parte degli intermediari finanziari, ligi al precetto “pecunia non olet”.
Ed oggi proprio a quei soggetti vengono erogate somme enormi, “auspicando” che una minima parte essi abbiano la compiacenza di distribuirla a famiglie e a imprese che i medesimi hanno consegnato in molti casi nella mani degli usurai.
Forse mai come quest’anno il vero simbolo del Natale non è l’Albero addobbato e rutilante di mille colori (elettrici), ma il Presepe, con le eterne scene di povertà, di bisogni ridotti al minimo, di sonni all’addiaccio, di veglie ansiose, di fuochi stentati alimentati da pochi sterpi.
Forse mai come quest’anno ogni italiano in difficoltà, e sono tanti in ogni regione, si sentirà vicino e affratellato a persone e popoli che, per anni abbiamo commiserato, mentre consumavamo il Cenone, affrettandoci a cambiare canale davanti alle scene che più rimproverano la nostra opulenza… poggiata sul nulla.
E’ un Natale di guerra quello che ci apprestiamo a celebrare e sono certo che stanotte le chiese saranno più affollate degli scorsi anni mentre le tavole, un po’ meno. A tali sentimenti di frustrazione e di paura si sta affiancando a poco a poco un crescente desiderio di rivalsa verso coloro che hanno consentito tutto questo, nel passato, e che, nel presente, restano comunque risparmiati in larga misura da ogni misura realmente equa. Tale desiderio di rivalsa prepara la strada a sommovimenti sociali cui non siamo ancora preparati e che covano un cupo bisogno di giustizia, se non di vendetta.
Le scene costantemente riproposte dai media circa i livelli di disperazione raggiunti in Grecia, dovrebbero servire a rassicurarci che noi non le vivremo perché a prezzo di ciò che esiste di più sacro (i diritti dei lavoratori, le speranze dei giovani, le tutele dei più deboli e degli anziani e molto altro) abbiamo “salvato l’Italia”. Sappiamo tutti che non è così e che, saziati temporaneamente gli speculatori internazionali e gli egoismi europei, ci ritroveremo davanti a problemi mai risolti, a bisogni mai considerati e a nodi strutturali figli di un sistema che mostra ogni giorno di più il volto rapace di un capitalismo senza più contrapposizioni, freni, limiti di sorta. Il dio mercato si è definitivamente sostituito ad ogni altro valore e nella fornace ai suoi piedi stiamo gettando il nostro futuro, sperando di placarne l’ira.
Incapaci di concepire un mondo diverso, stiamo alimentando quello di sempre; privi del coraggio di spezzare catene antiche, ce ne stiamo caricando di nuove, poiché ci hanno spiegato che siamo inadeguati a volare e ci stiamo rassegnando a razzolare.
E’ un Natale di guerra quello del 2011 e forse lo sarà anche nel 2012, cui arriveremo stremati, sfiduciati e definitivamente vassalli di quell’Europa di cui volevamo e potevamo essere guida attraverso il modello di umanità pensato da De Gasperi, Adenauer , Monnet, Shuman e Spinelli, alternativo, sotto ogni aspetto, a quello dei banchieri “dai cuori a forma di salvadanaio”.
Ma, attenzione, su tutti gli oppressori, piccoli e grandi, globali o locali, comunque travestiti e mimetizzati grava quella mano alzata che accompagna le uniche parole che fanno tremare da sempre ogni potente: “Verrà un giorno!”. E quando quel giorno sarà giunto, non basteranno tutele, prebende e privilegi, non serviranno rifugi off shore o segreti bancari, non offriranno alcun riparo cariche, toghe o paramenti. Si sentirà soltanto lo scalpitio dei tanti cavalli scheletrici che come quelli del ‘Trionfo’ di Palazzo Abatellis, di Bruegel o di Guernica percorreranno le strade alla ricerca di una giustizia definitiva che purifichi il mondo e ne crei uno totalmente nuovo.
Buon Natale…ma non a tutti. Mi dispiace, ma proprio non ci riesco.

 

 

 

 

 

 


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"è il terzo natale di guerra!. Fa freddo. Nella maggioranza delle case, in città come in campagna, ci si scalda con le stufe. Carbone e legna si fanno sempre più rari. Ci eravamo trasferiti a temi. Mamma, quando poteva, mi faceva avere, da qualche paesano, un po' di pane e di uova. Per riscaldarci preparavo durante tutta l'estate delle palle di carta. Si metteva tutta la carta e la cartaccia in un mastello di legno con un po' d'acqua, poi si strizzava ben bene e se ne facevano delle palle. Bisognava lasciarle per un bel po' al sole perché diventassero dure, e poi d'inverno si bruciavano al posto della legna. Avevo scoperto che se ci mettevo dentro i noccioli delle pesche o delle prugne, un po' di aghi di pino o di polvere di carbone, le palle duravano di più, davano più calore e anche un po' di buon odore. Ci si doveva accontentare. La cenere della stufa, ancora calda, si metteva in un recipiente di rame per scaldare il letto e le mani. Faceva molto freddo. Forse sentivamo tanto freddo anche perché mangiavamo poco.

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