Lo shopping e il consumismo che ci consuma

In queste giornate prenatalizie, in mezzo a preparativi circa cannoli tacchini luci intermittenti “regalini sotto l’albero” e retoriche da bar, una sottile angoscia, come uno scheletro nell’armadio, ci perseguita e s’insinua nei meandri dei nostri già stressati circuiti neuronali: la CRISI, parola che sortisce effetti tra i più svariati ma forse non quello, necessario, di cambiare lo sguardo con cui osserviamo le cose, gli oggetti che ci circondano, e il loro “valore”, laddove veramente ne hanno uno. Eppure non sono pochi!
Siamo circondati da un’innumerevole varietà di oggetti che saturano la nostra esistenza quotidiana e che attendono,  secondo l’orientamento dei nostri interessi, di essere compresi. Sotto forma di oggetti tecnologici, di beni di consumo, di effetti personali, di arredi ed elementi della casa, della strada o della città, oppure nella veste più ambigua di oggetti artistici o di presenze marginali e desuete, proliferano a dismisura in ogni parte della nostra vita. Prodotti, scambiati, consumati in misura sempre più crescente e con un’estensione globale senza precedenti, gli oggetti sono diventati parte integrante della nostra vita e della comunità cui apparteniamo. Incorporano i ricordi, le aspettative, i sentimenti e le passioni, le sofferenze e il desiderio di felicità.
Uno dei caratteri fondamentali degli oggetti, una volta, era la loro permanenza, la durata. Poi è accaduto esattamente il contrario, abbiamo cominciato a sopravvivere ai nostri oggetti, i quali muoiono prima di noi, non per deterioramento, dato che oggi potremmo farli veramente immortali; muoiono piuttosto per obsolescenza. Anzi, non muoiono: funzionano benissimo, semplicemente vengono superati da altri oggetti più avanzati: diventa problematica l’affermazione contenuta nel penultimo verso della poesia di Borges Las cosas: “Dureranno più in là del nostro oblio”.
Con lo sviluppo delle tecnologie sono entrati in scena oggetti diversi da quelli che da tempo eravamo abituati a vederci attorno, quegli oggetti materiali che uscivano dalle profondità della pietra, del legno, dell’argilla, del ferro. Se non è uno specialista, chi è oggi in grado di riconoscere molti tra i circa sei milioni di prodotti derivati dal petrolio, nessuno dei quali esisteva in natura? La loro fonte, gli idrocarburi, formatisi in un milione di anni, è in un futuro relativamente breve destinata a esaurirsi, ma i residui delle loro lavorazioni, al pari di quelli di determinati minerali, dureranno più di quanto non vorremmo (è il caso dei sacchetti di plastica di vecchia generazione, del piombo e del mercurio confluiti nelle acque e di altri elementi come le scorie radioattive delle centrali a energia nucleare). Nel nostro mondo è inevitabile che il panorama degli oggetti muti rapidamente, che una “generazione” di modelli sempre nuovi o alla moda sostituisca e sospinga i precedenti nell’oblio: che computer più elaborati rendano rapidamente obsoleti quelli fabbricati pochi anni prima o che i forni elettrici o a microonde prendano il posto del focolare, dove ardeva il ceppo. Allo scopo di far durare se stessa, si dice, la società dei consumi deve distruggere le cose durevoli. Non vi è più una scomparsa lenta, ma una “perdita violenta” degli oggetti: “Il gusto acquisitivo e lo shopping costituiscono la premessa per tale opera di distruzione di ciò che si è comprato” (Baudrillard).
Se le tecnologie, le necessità e i gusti cambiano, perché restare allora attaccati alle cose e alle tecniche del passato? Perché seguire, in maniera snobistica, la moda dell’antiquariato e mettere in bella mostra – senza capirli, come semplici trofei di ricchezza e di presunta distinzione – oggetti che con noi non intratterranno mai alcun intrinseco rapporto e che non sono stati adottati “per amore”? Cosa abbiamo perduto nella nostra civiltà e nella nostra vita per riversarci con tanta foga sulle merci? Quale vuoto, eventualmente, esse ricoprono? E’ proprio vero che nelle società dominate dal mercato e dall’individualismo possessivo, dove la sfera economica si è resa relativamente autonoma, il nostro rapporto con il mondo delle cose ha assunto un significato più alto di quello tra uomini? (come sostengono Dumont e Iacono?). Le merci ci condizionano in maniera tale da occupare il primo posto nei nostri interessi? Se il senso della proprietà o dell’attaccamento agli oggetti è sempre esistito, sia pure con modalità diverse, che cosa differenzia oggi la nostra relazione con ciò di cui ci appropriamo? Cosa distingue un Mastro Don Gesualdo del passato da un nostro contemporaneo ossessionato dallo shopping?
Non è facile cogliere il fenomeno del consumismo nelle sue molteplici sfaccettature senza sbarazzarsi del velo del moralismo. Un punto di vista più vantaggioso da cui esaminare il problema consiste nel considerarlo, geneticamente, come risultato dell’abolizione dei limiti tradizionalmente imposti dalla penuria alla piena soddisfazione di bisogni e desideri a lungo repressi. A partire da più di un secolo e mezzo (esattamente dal 1852, quando Aristide Boucicault aprì a Parigi il primo Grande magazzino, Au bon marchè, che esiste tuttora in Rue de Sevres), il mondo è segnato dal ruolo preminente del consumo nell’economia, nella società e nella psicologia individuale. I bassi prezzi unitari delle merci, la possibilità di restituirle a determinate condizioni, il pagamento rateale provocano a ondate successive la “proliferazione del superfluo” e la “democratizzazione del lusso”. Ad accrescere il volume dei beni materiali acquistabili hanno ulteriormente contribuito alcune innovazioni che ci sono ormai diventate familiari. Cinquant’anni dopo la nascita dei Grandi magazzini, i clienti vennero attratti al loro interno dalle vetrine, inventate nel 1902 da un artigiano francese di nome Foucault, che fu in grado di produrre grandi lastre di vetro senza che gli sbalzi di temperatura le frantumassero; negli anni Trenta del Novecento l’americano Sylvan Nathan Goldman, creando il carrello dei supermercati, indusse i clienti a colmarli di merci in misura maggiore rispetto ai cestini precedentemente in uso. Dal punto di vista teorico i Grandi magazzini sorgono per impulso di alcuni economisti francesi allo scopo di ridurre la forbice tra sovrapproduzione di merci, causata dalla ormai massiccia introduzione delle macchine, e sottoconsumo, dovuto allo scarso potere d’acquisto di buona parte della popolazione. Il presupposto di base è che, attraverso l’agevolazione dei consumi, si riesce non solo ad assorbire il surplus della produzione, ma anche a ridurre i tassi di disoccupazione nell’industria e nel commercio e a evitare che operai disperati distruggano le macchine ritenendole responsabili della perdita del loro lavoro. Nel nostro stile di vita vi è, tuttavia, qualcosa di più: si tratta della bulimia acquisitiva, dell’esagerata inclinazione a soddisfare esigenze e bisogni sostanzialmente superflui.
Dato che nella nostra struttura economica se non si consuma, non si produce e, se non si produce, il sistema fallisce, è evidente che il consumo è inseparabile dall’intero ciclo economico. Per questo, sebbene le crisi finanziarie ed energetiche in corso modificheranno forse i comportamenti collettivi, l’eliminazione delle pratiche legate al consumismo, che è anche consumo di vita, e non solo di beni, risulta ardua e lunga. Implica sia l’indebolimento e, al limite, il disfacimento dell’attuale modo di produzione, sia la penosa riconversione di centinaia di milioni di individui a stili di vita a cui si erano abituati da poco e con evidente piacere. A livello individuale, il consumo di merci oltre la stretta necessità della soddisfazione dei bisogni primari comporta, di per sé, una secca perdita di realtà e una radicale banalizzazione dell’esistenza, privata della forza di trascendersi e di rinnovarsi. Vero è che il lusso moderno è si, banale, ma prima non c’era altro che miseria. E vale la pena di ricordare che esistono zone di resistenza, nicchie, percorsi secondari, in cui gli oggetti resistono alla mercificazione e si danno simboli, non obbligatoriamente derivanti dalla pubblicità, i quali mostrano la loro capacità di orientare i nostri comportamenti in modo più personale. Ampliare il raggio della soddisfazione dei bisogni oltre la mera necessità non implica poi la fine automatica della trascendenza, con la conseguente regressione allo stato selvaggio dell’umanità nella giungla degli oggetti. Per certi versi, rappresenta anzi il risultato apprezzabile di un faticoso processo di incivilimento che coinvolge innumerevoli persone e che si va affermando dopo millenni di forzata e umiliante astinenza dai consumi materiali e immateriali.
Esiste, d’altra parte, un destino inesorabile che ci obbliga ad accettare la permanenza di un sistema economico basato sullo spreco di risorse, proprio mentre più di un terzo dell’umanità soffre di una straziante penuria di beni primari? Questo relativo lusso, distribuito in maniera asimmetrica tra le diverse popolazioni e all’interno di ciascuna di esse, può durare ancora a lungo senza diventare una intollerabile ingiustizia? Cosa avverrà quando i Paesi più ricchi saranno, forse, costretti a dividere i beni con gli abitanti di altre parti del globo in precedenza condannati alla scarsità endemica? Si tornerà veramente a modelli di vita più sobri e frugali, ormai dimenticati, e cambierà, per riflesso, il nostro rapporto con le merci, gli oggetti, le cose? E nel caso in cui tali mutamenti abbiano effettivamente luogo, quali desideri, fantasie proietteremo sulle cose? Si riscoprirà, in forme diverse, quello che l’opulenza di molti ha finora respinto ai margini della consapevolezza, ossia la provenienza delle cose dalla natura, dalla storia, dalle tecniche? Memori dell’ammonimento secondo cui “l’inevitabile non accade mai, l’inatteso sempre” (Keynes), sarebbe azzardato formulare qualsiasi previsione a medio e lungo termine, ma le domande restano aperte.
Di fronte all’accumulo di oggetti acquistati di cui ci si libera rapidamente, molti, in Occidente, sono assaliti da sensi di colpa per l’eccessivo consumo di merci e da disgusto per la loro volgare ostentazione. Scatta così periodicamente il desiderio di liberare la nostra vita dal superfluo: un proposito fiacco, che serve ad alleviare la nostra cattiva coscienza solo per qualche istante. Più efficace, da parte del consumatore, è ritenuto l’obiettivo di “costruire un universo intellegibile con i beni che sceglie” (Douglas-Isherwood), concepiti come parte della cultura materiale e fattori integranti della propria identità. La recente tendenza della sociologica e dell’economia è, del resto, quella di sminuire gli effetti negativi del consumismo, di non considerare più, ad esempio, il cliente come individuo passivo ed etero diretto, vittima della pubblicità, bensì come soggetto attivo, che con le sue scelte, assegna valore al mondo in cui vive. In realtà, come ha mostrato Perec in Les choses, le piccole e momentanee dosi di felicità che si riescono a strappare aderendo ai valori dominanti nella società dei consumi si pagano con l’impoverimento e la superficialità dei rapporti umani, una volta raggiunto l’agognato benessere. L’esaltazione delle merci quali veicoli di felicità comporta, paradossalmente, la loro svalutazione perché le rende funzionali non alle effettive motivazioni delle singole persone, ma a un estrinseco ordine sociale, alla coltivazione del “gusto”, mirato però non più alla rivelazione di una individualità, bensì alla comunicazione della fascia sociale di appartenenza. La moda, per esempio, nella sua “banalità misteriosa”, è un fenomeno sfuggente perché non corrisponde a esigenze di bellezza, di utilità o di comodità: la sua efficacia dipende dall’intreccio due paradossi: Il primo è di natura temporale, perché il tempo si mostra sia nell’atto di divorare e squalificare le sue fasi appena trascorse, sia nella propria capacità di rinascere rinnovato a ogni istante. Il secondo è di carattere sociale, perché ognuno vuole essere originale, pur finendo per essere uguale agli altri, questo a causa della crescente imitazione di un modello che spinge chi vuole distinguersi a ulteriori innovazioni, promuovendo un’instancabile dialettica. “I am to myself disguised” fa dire Shakespeare a uno dei suoi personaggi nella Commedia degli equivoci. Sebbene questa diagnosi contenga una massiccia dose di “retorica della postmodernità”, è certo che lo statuto delle cose nel mondo postmoderno è cambiato. Non si mobiliterà contro le merci e gli oggetti una seppure nobile nostalgia, di tipo vagamente pasoliniano, per la civiltà preindustriale, in cui la penuria si accompagnava alla “trascendenza”, anche religiosa, e la cultura contadina ai prodotti artigianali? Non si rimpiangerà forse il mondo di ieri, dove le poche cose conquistate attraverso sacrifici, conservate e tramandate con cura, assorbivano lentamente gli investimenti cognitivi e affettivi, risultando quindi concettualmente più ricche, emotivamente più cariche e materialmente meglio lavorate?
La lettera di Rilke a Withold Hulewicz del 1925 costituisce un ‘importantissimo documento per capire a fondo le ragioni della nostalgia per l’autenticità delle cose di una volta e la conseguente avversione nei confronti delle pseudo-cose del presente: “Ancora per i padri dei nostri padri una “casa” era una “casa”, una “fontana” una “fontana”, una torre conosciuta, persino la loro propria veste, il loro mantello, infinitamente più familiare; quasi ogni cosa un vaso, in cui essi rintracciavano l’umano. Ora incalzano dall’America cose vuote, indifferenti, apparenze di cose, parvenze della vita (…) Una cosa, nel senso americano, una mela o una vite di là non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il grappolo, in cui era puntata la speranza e la meditazione dei nostri avi. Le cose, animate, vissute, consapevoli con noi, declinano e non possono essere più sostituite: Noi siamo forse gli ultimi che abbiamo conosciuto tali cose. Su noi posa la responsabilità di conservare non solo il loro ricordo (sarebbe poco e infido), ma il loro valore umano e larico.”
Le cose, vivono a determinate condizioni: se le lasciamo sussistere accanto e assieme a noi senza volerle assorbire; se congiungono le nostre vite a quelle degli altri; se, per loro tramite, ci apriamo al mondo per farlo confluire in noi e ci riversiamo in esso per renderlo più sensato e conforme a ideali, da discutere insieme, di interesse generale; se coltiviamo un atteggiamento capace di superare la contrapposizione tra un’interiorità chiusa e autoreferenziale e una esteriorità inerte e di seconda mano; se, coscienti del fatto che nell’aldilà non potremo portarci dietro niente, perché, come dice un proverbio tedesco, “l’ultimo vestito non ha tasche”, rinunciamo a privilegiare rapporti esclusivamente di possesso sugli oggetti; se, guardando al senso originario di eternità come pienezza di vita, abbandoniamo il vivere semplicemente alla giornata; se passiamo dalla cultura dello spreco a un rapporto sobrio ed essenziale con le cose.
La brevità della vita e la casualità del nascere, che racchiudono ciascuno in un tempo e uno spazio limitati, ci consentono di venire a contatto solo con un certo numero di cose. La decisione di conoscere e avere cura di alcune, senza precludersi la comprensione delle altre, implica non solo un atteggiamento di costante attenzione al mondo e alle persone, ma anche un ethos, e persino una presa di posizione politica, per contribuire a fare una res pubblica della società in cui ci è toccato di vivere. Di tutto il resto infinito di oggetti e cose, probabilmente possiamo farne a meno.

 

 


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