Call center, l’Ugl: 7 mila posti a rischio in Sicilia

L’allarme lo lancia il segretario regionale dell’Ugl Telecomunicazioni siciliana, Daniele Ruisi: “Nella nostra regione – dice – a causa della delocalizzazione ‘selvaggia’, sono a rischio i posti di lavoro di circa sette mila e cinquecento dipendenti che operano nei call center. I primi segnali della crisi ci sono tutti. Per questo invitiamo le forze politiche e sociali dell’Isola a mobilitarsi per scongiurare un esito che potrebbe risultare disastroso”.
In Sicilia i call center sono dislocati tra Palermo e Catania. La maggior parte dei dipendenti – circa 4 mila e 500 addetti -opera nel capoluogo dell’Isola. Altri 2 mila e 500 circa lavorano nella città Etnea. La fascia di età di questi lavoratori è compresa, in maggioranza, tra trentacinquenni e quarantenni. Anche se non mancano addetti più giovani – ventenni e trentenni – e lavoratori più su con gli anni: cinquantenni e persino sessantenni.
A questi 7 mila e 500 addetti circa vanno aggiunti i cosiddetti lavoratori a progetto, ovvero coloro i quali gestiscono le chiamate in uscita (si tratta, per lo più, degli operatori della telefonia che illustrano agli utenti proposte commerciali). Questi 4 mila lavoratori circa non sono identificabili, ma esistono lo stesso. Se ne deve dedurre che, un’eventuale crisi di questo settore, farebbe perdere il lavoro – anche se precario – pure a questi 4 mila addetti.

“La verità – dice Daniele Ruisi – è che a Milano, con i call center, i ragazzi si pagano l’università, mentre dalle nostre parti ci vivono migliaia di famiglie”.

– Da cosa nasce questa possibile crisi di questo settore?

“Dal fatto che in Italia non c’è alcun controllo del mercato. Molti committenti, da Wind a Telecom, da Tim a Tre fino a Sky non ci pensano due volte a delocalizzare. In Italia, e questa è storia nota, questi grandi gruppi si servono di aziende che operano nel territorio: Almaviva in testa, poi Alicos, 4u per citare le maggiori. Ora, nel nostro Paese – e quindi anche in Sicilia – il costo del lavoro è molto più alto rispetto ad altri Paesi europei, ma anche extra europei. Basti pensare che in Albania o in Bulgaria un dipendente costa i due decimi o, addirittura, un decimo rispetto al costo di un dipendente che opera in un call center italiano. Quindi…”.

– Quindi?

“Quindi questi signori – e mi riferisco, per l’appunto, ai già citati Wind, Telecom, Tim, Tre e la stessa Sky – preferiscono ‘girare’ le commesse ai Paesi dove il costo del lavoro è di gran lunga inferiore. Così facendo lo tolgono al nostro Paese e, segnatamente, alla Sicilia. E c’è di più”.

– Cioè?

“Qui da noi si lavora con la licenza italiana e la concessione governativa. Se questi servizi vengono gestiti in altri Paesi cambia tutto. Non solo regaliamo ad altri i posti di lavoro, ma portiamo i nostri soldi all’estero. Detto in parole più semplici, quando carichiamo una scheda telefonica, a guadagnare non sono più le aziende italiane, a parte la Tim che è ancora in parte italiana. Per non parlare, poi, del trattamento dei dati sensibili”.

– Ovvero?

“In Italia i dati sensibili sono protetti dalla legge sulla privacy. Nei Paesi esteri chiamati a trattare i nostri dati sensibili la legislazione su tale materia è diversa e, in certi casi, assente. Sa che significa tutto questo? Che gli utenti italiani non sono più tutelati. Perché non c’è più il rigoroso controllo dei dati sensibili”.

– Torniamo ai posti di lavoro a rischio.

“I primi segnali sono arrivati nel febbraio di quest’anno con Sky. Che ormai privilegia il mercato estero. Con particolare riferimento all’Albania. In seguito a queste delocalizzazioni, Almaviva, l’estate scorsa, è stata costretta a mettere in cassa integrazione seicentoventotto lavoratori solo a Palermo”.

– Temete un effetto a catena?

“Noi l’effetto a catena lo vogliano scongiurare. Ed è per questo che stiamo chiamando politica e forze sociali alla mobilitazone. Prendiamo come esempio Wind, che è il committente che dà più chiamate in entrata ad Almaviva. Se Wind dovesse imitare Sky, spostando le chiamate verso i Paesi esteri, per la Sicilia sarebbe un disastro. A rischio sarebbero circa cinquemila posti di lavoro”.

– Che si può fare per evitare che ciò avvenga?

“In primo luogo, e non mi stancherò mai di ripeterlo, la mobilitazione. Tenendo presente che lo scenario non è semplice. Ogni anno, con queste liberalizzazioni folli, i margini di manovra, per i lavoratori, si assottigliano. I grandi gruppi hanno il coltello dalla parte del manico. E, sull’onda di quello che, in fondo, suona un po’ come un ricatto, impongono agli stessi lavoratori condizioni di lavoro sempre più onerose. In pratica, è come se dicessero: tu, lavoratore, nel minore tempo possibile mi devi fornire una prestazione efficiente e di alta qualità; mentre io ti propongo una remunerazione che è la più bassa possibile. E tu, lavoratore, devi accettare, altrimenti io delocalizzo”.

Qual è la vostra proposta rispetto a questo scenario da romanzo di Charles Dickens?

“La nostra campagna contro la delocalizzazione è iniziata un anno e mezzo fa. Ricordo che il 28 maggio scorso abbiamo dato vita a una grande manifestazione a Palermo, con la partecipazione di quattro mila persone. Oggi lavoriamo a una petizione popolare per chiedere regole certe per tutti i soggetti che operano nel territorio italiano. Chiediamo che vengano vietate le esternalizzazioni delle attività delle società che operano nel campo delle telecomunicazioni. Non è più tollerabile lo spostamento di lavoro all’estero. Perché questi spostamenti mettono a rischio la vita di migliaia di famiglie. E anche perché molte di queste aziende hanno usufruito di agevolazioni pubbliche”.

– E sui dati sensibili degli italiani gestiti all’estero?

“Questo è un aspetto delicatissimo. Molti italiani non sanno che anche i loro conti correnti bancari sono gestiti all’estero. Noi chiediamo che il cittadino venga informato, per filo e per segno, affinché sia certo che i suoi dati sensibili vengano gestiti in Italia, nel rispetto della legge sulla privacy. Questo a noi sembra il minimo”.


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