L’Occidente tra autorità e autoritarismo

“Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire”. (Enrico Berlinguer).
Siamo, credo tutti, estremamente colpiti dalla sobrietà del discorso di Mario Monti al parlamento, nonostante la gravità della crisi e, di più, delle risoluzioni da lui proposte. Riuscirà a portare avanti un simile progetto insieme al 66 per cento del parlamento favorevole? Certo, quella del parlamento, una silente sottomissione inaspettata, tranne la Lega che non fa testo se non per se stessa e qualche vacua e inconcludente opposizione mossa dagli altri partiti.
Berlinguer non sarebbe stato d’accordo, non esiste una grande credibilità politica, non sono stati colpiti esosi ed intollerabili privilegi. Ma Berlinguer è acqua passata. Oggi, quasi tutti, si dicono liberali. Berlusconi (i suoi avvocati, gli attori e presentatori delle sue reti televisive diventati ministri e autorità) e i politici della parte opposta, parlano sempre di liberalismo e liberismo contraddicendoli nei fatti. Si tratta principalmente del consolidato interesse di coloro che nei rapporti esistenti hanno una collocazione soddisfacente e che, comunque, sono inclini più a temere che a sperare cambiamenti delle strutture. E in una società di cittadini evoluta sono loro a costituire una maggioranza, non fosse altro che di capitale. Sicché viene messo in moto un processo nel quale siamo totalmente immersi.
Ci si chiede come quell’opinione pubblica, ancora alquanto esaltata dalla “sobrietà” del nuovo governo, reagirà alla preannunciata batosta sulle pensioni e sugli interessi dei lavoratori, all’innalzamento dell’Iva e alle privatizzazioni in cantiere, alle nuove accise sui carburanti ecc. Nel frattempo, per inciso, i Generali delle Forze Armate festeggiano, tra poco pare avranno 131 aerei F35 al costo di sedici miliardi, se consideriamo che la manovra di Monti ne vale venticinque di miliardi, non è poco.

Verso una nuova lotta di classe?
Una nuova lotta di classe? Certamente no, o almeno non in prima istanza. Intanto le assemblee sindacali (da USB a Cib UniCobas, Snater, USI, e chi più ne ha più ne metta) preparano lo sciopero generale mobilitandosi nei territori per aprire un ciclo di lotte nel Paese che ridefinisca il ruolo centrale del lavoro e dei lavoratori, battendosi per la difesa dei beni comuni, dell’ambiente, della scuola pubblica, contro tutte le privatizzazioni e per i diritti dei migranti. Dal documento conclusivo dell’assemblea nazionale che ha avuto sede in Roma al teatro Ambra Jovinelli lo scorso 3 dicembre si evince che siamo ormai di fronte a una vera e propria gestione autoritaria della cosa pubblica nell’ambito di una guerra finanziaria che, attraverso la gestione dei debiti sovrani, devasta le economie reali, ridefinisce relazioni e rapporti tra i Paesi europei, opprime i popoli privandoli dell’accesso alla ricchezza sociale prodotta.
Il nuovo governo, dunque, sembra rappresentare esclusivamente l’aggregazione dei poteri forti nazionali – banche, università manageriali, chiesa e confindustria – asserviti al potere finanziario internazionale rappresentato dallo stesso Monti. Il ruolo dei sindacati indipendenti diventa l’unica possibilità – conclude il documento – di “dare corpo e voce all’opposizione sociale attraverso una forte soggettività”.
I rapporti sociali che danno luogo a conflitti più o meno gravi non sono soltanto i rapporti di proprietà, ma soprattutto lo sono quelli del dominio. Dove c’è dominio, ci sono anche conflitti fra quelli che sono interessati allo status quo e quelli che sono interessati al suo cambiamento. Questo conflitto, come l’esperienza ha dimostrato, pare essere endemico. La sua intensità e violenza determinano la radicalità e il ritmo del cambiamento. Lo sfondo di questi conflitti risale alla prima industrializzazione, quando l’intenzione era di dare a tutti i cittadini una notevole misura di chances di vita. In concreto ciò significò sempre insieme l’apertura di opzioni e la moltiplicazione delle opzioni stesse. Quest’ultima comportava un livello di benessere di gran lunga al di sopra del minimo di sussistenza, ma anche la possibilità della scelta individuale di forme di vita in ambiti sempre nuovi.
Mobilità geografica e sociale, secolarizzazione, rivoluzione sessuale, tempo libero, molteplicità di mezzi e altro ancora costituiscono tutti insieme indici di una società dell’opzione. Ma la lotta non riguardò in prima linea la moltiplicazione delle opzioni, bensì l’accesso ad esse, i diritti individuali. Sempre le rivendicazioni hanno mirato all’acquisizione di nuovi diritti; sempre c’è stata resistenza da parte di coloro che erano ben installati nello status quo; e sempre alla fine la resistenza è stata infranta, e le richieste sono state assecondate.

… e tutti cercano sempre lo Stato…
Naturalmente esistono altri pensieri politici: alcuni vogliono ravvivare il dispositivo della domanda, possibilmente in forme nuove; altri pensano a programmi statali per la creazione di posti di lavoro; alcuni vogliono rafforzare l’attività economica del settore pubblico; altri si affidano a misure di redistribuzione; i più cercano una combinazione fra queste scelte e con altre ancora, ma tutti pretendono un aumento dell’attività dello Stato. E anche se in tanti si dubita della capacità dei governi di affrontare i problemi, questa posizione tuttavia incontra parecchio favore. Veniamo così a trovarci, rispetto ai diritti civili, davanti a un quadro fuorviante, in cui la pretesa di meno Stato e la pretesa di più Stato si fanno reciprocamente concorrenza.
Già negli anni Settanta e Ottanta è entrata nella coscienza collettiva la dimensione internazionale della crescita dell’economia. A partire dalla crisi petrolifera, l’ ‘economia mondiale’ è diventata una forza che nessuno può ignorare impunemente. Ogni volta che viene ripreso il tema della crescita, non mancano mai i riferimenti ai vantaggi e agli svantaggi della concorrenza, ai necessari processi di adattamento, alle nuove distribuzioni di peso regionale, a Paesi industriali in ascesa o di vecchia tradizione. Una compagine valutaria mondiale che non merita più il nome di sistema e che rispecchia simili interdipendenze.
Perché la crescita è diventata un problema? La maggior parte delle spiegazioni rimanda a fattori come rigidità, immobilismo, inflessibilità o anche stanchezza, debolezza, mancanza d’iniziativa. Una crescita lenta viene spiegata in base agli effetti collaterali dei successi del passato, in base all’ordine di grandezza delle unità economiche, della burocratizzazione della politica economica e di una certa indolenza, all’abitudine a contare sulla redistribuzione. Olson ha localizzato questa sindrome soprattutto in Europa e negli Stati Uniti; Giersch per primo ha parlato di “eurosclerosi”; molti altri contrappongono i NICS, i Paesi neo-industrializzati dell’Asia Orientale e Meridionale, all’OCSE. Quale che possa essere alla fine la spiegazione, la crescita è diventata il secondo grande problema che domina la politica dei Paesi progrediti, dopo quello finanziario. Viene ancora impiegata la metafora del ciclista, che cade se smette di pedalare e di muoversi in avanti.

Aristotele e il problema dell’eternità
Esiste una nuova paura della libertà, che potrebbe richiamare indietro vecchie costrizioni. Aristotele, con la distinzione di due tipi di vita, credeva di aver descritto una situazione eterna. Il liberale, che vuole confini aperti e quindi cerca cambiamento, non può accettare questo assunto. Marx con la sua traduzione della distinzione in una successione storica, credeva di aver descritto un processo inevitabile. Il liberale, che vede l’incertezza come condizione umana di vita, non può accettare simili presunte inevitabilità. Questo vuol dire, però, che una condizione più precaria di transizione e di cambiamento può sfociare anche nella chiusura di possibilità esistenti. Le grandi potenze conservatrici del capitalismo e del socialismo non ci aiuteranno a portare alla luce una società dell’attività. In entrambi i casi si nasconde la paura del nuovo, nonostante che innovazione significhi per molti nuove chances di vita. Di conseguenza, la speranza riposa su quelli che abbozzano nuove strade, là dove gli uomini vivono e lavorano, nelle imprese, nelle comunità e nei piccoli gruppi.

“L’insocevole socievolezza” di Ralf Dahrendorf
La scomparsa di Ralf Dahrendorf, inimitabile e infaticabile economista liberale, crea un grande vuoto nel mondo di coloro che impegnano risorse intellettuali e morali per la difesa e lo sviluppo delle libertà individuali. Il suo contributo (soprattutto con il suo saggio “Verso un nuovo liberalismo”, pubblicato dalla casa editrice Laterza di Bari) profondo e costante, a tali fondamentali tematiche, è stato decisivo. E’ stato un grande interprete contemporaneo dei migliori valori dell’illuminismo e un grande democratico che, movendo dalle condivise constatazioni di Kant sulla natura umana caratterizzata da “insocievole socievolezza”, ha costantemente cercato strade e soluzioni per ampliare e diffondere le opportunità e le chances di vita.
Le riflessioni fondamentali di Dahrendorf sulla libertà e sulla storia a cui ho fatto riferimento possono essere così sintetizzate:

– La libertà che ha rilevanza è la libertà che realizza chances di vita.

– Le chances di vita sono costituite da un insieme di diritti civili e opportunità di benessere.

– La storia può acquistare un senso se si sostanzia dello sviluppo e della diffusione di chanches di vita sempre più ampie in favore di un numero crescente di persone.

– Lo sviluppo e la diffusione delle chances di vita presuppongono la società aperta, la società che consente il tentativo, l’errore e il libero confronto su il pro e il contro di ogni decisione.

“Le società moderne si trovano tipicamente davanti a due generi di compiti, spesso difficilmente conciliabili tra loro. In primo luogo esse devono trovare mezzi e strade per garantire ai loro membri certi diritti fondamentali di partecipazione o diritti civili. Fra questi, come minimo, l’uguaglianza davanti alla legge, e quindi l’eliminazione dei privilegi formali. Nelle società più evolute si aggiungono altri elementi a questa uguaglianza di base. Ed è prima di tutto la mobilitazione politica, spesso sotto forma di partecipazione politica (il suffragio universale, la libertà di coalizione). Un ulteriore elemento è più complicato; è l’affermazione di certi diritti civili di carattere sociale, cioè di un livello di benessere, al di sotto del quale nessuno deve poter cadere. (…).” Simili diritti civili costituiscono una quantità di Anrechte, come li chiamava Dahrendorf (benché altri termini sarebbero possibili, compresi quelli di “cittadinanza” o anche “democrazia” nel senso di Tocqueville). (…) In secondo luogo le società moderne devono trovare mezzi e strade per garantire ai loro membri uno standard di vita soddisfacente” .

Di fronte al dramma della povertà e della disoccupazione, già nel 1987 Dahrendorf scriveva sul reddito minimo garantito: “(…) Tanto la nuova disoccupazione quanto la nuova povertà toccano questioni alle quali il reddito minimo darebbe una risposta tendenzialmente importante – e, a mio parere, giusta. Sono questioni attinenti alla legittimità delle comunità democratiche di oggi. Sono quindi questioni fondamentali (…). Nella costituzione in senso lato ricade anche il reddito minimo. Esso deve trovare riconoscimento come componente fondamentale dei diritti civili, poiché il suo senso sta nel fatto che segna una postazione di uscita, oltre la quale nessuno deve poter cadere”.

 


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