Termini Imerese, dall’addio alla Fiat al grande ‘Risiko’ di Dr Motors

A Termini Imerese già le voci corrono. Indiscrezioni e qualche maldicenza. Ipotesi che, in parte, sono il frutto degli articoli pubblicati dal Sole 24 Ore nei giorni febbrili della trattativa tra Stato, Regione, Comune e Dr Motors (con questo gruppo che, a dir la verità, non ne esce bene: anzi) e, in parte, sono parole raccolte qua e là tra addetti ai lavori che lasciano trapelare solo qualche battuta. Frasi gettate qua e là, perché, alla fine, quando si cerca di portarli al dunque, sono tutti abbottonatissimi. E non vogliono nemmeno essere citati. Nemmeno di ‘striscio’.
Cosa raccontano, allora, queste indiscrezioni? Raccontano che il futuro ‘industriale’ di Termini Imerese sarebbe già scritto con un ‘linguaggio’, tutto meridionale, che, per altro, a Termini Imerese conoscono benissimo, non tanto per le vicende della Fiat – che, alla fine, tra alti e bassi, per quarant’anni ha tenuto i cancelli dello stabilimento aperti – quanto per altre storie, più o meno ‘industriali’, finite male, anzi, per essere precisi, mai iniziate.
Raccontano, per essere chiari nei limiti in cui lo si può essere in questa fase, che tutto l’ambaradan messo su in queste settimane tra Roma, il Molise, Palermo e Termini Imerese potrebbe risolversi – non subito, ovviamente, ma magari nel giro di qualche anno, anche per non farla ‘sporca’ – in un virtuosa ‘metabolizzazione’ dei 400 milioni di euro stanziati per il rilancio della produzione dell’automobile. Un’operazione ‘tipo Chimed’, insomma. Ovvero una sorta di fuoco fatuo industriale mangia tu-mangio io. Una recita che culminerebbe nell’arrivo di un colosso, pronto ad ampliare la propria presenza in Sicilia.

La ‘comica’ del Mediterraneo
Termini Imerese, dicevamo, non è nuova a certe ‘recitazioni industrali’ condite di ‘ascarismo’ allo stato puro. Il riferimento è alla ‘Chimica del Mediterraneo’, un progetto partorito nei primi anni ‘60 del secolo scorso dalla mente dell’allora presidente dell’Ente minerario siciliano, Graziano Verzotto. E’ il sogno di un grande stabilimento industriale, da realizzare, per l’appunto, alle porte di questa città, imperniato sulla chimica. Sono gli anni in cui, in Italia, la chimica ‘tira’, badando poco, in verità, all’inquinamento. Verzotto ipotizza per Termini Imerese tre linee di produzione: la Chimed, che avrebbe puntato sul bicarbonato di sodio; la Sofos, per la produzione di solfati (valorizzando i giacimenti minerari siciliani) e la Kros per i cromati.
Il sogno della grande chimica fallisce perché, a quanto si racconta, avrebbe fatto ombra a un grande stabilimento industriale già in quegli anni operativo in altre parti del Paese. Chi, operativamente, manda all’aria tutto è l’Irfis, che chiude i ‘rubinetti’ all’Orinoco, la società che avrebbe dovuto realizzare il progetto insieme ad altri soggetti. Va da sé che all’Irfis hanno sempre smentito, riversando su altri protagonisti le responsabilità del fallimento. In questo batti e ribatti, in questo gioco al rimpallo delle responsabilità c’è lo schema – mai cambiato di oltre sessant’anni di interventi straordinari nel Mezzogiorno, dalla ‘Cassa’ fino ai nostri gironi, passando per l’Agensud e per i Patti territoriali – con il quale, nel Sud d’Italia, si fanno sparire i soldi per l’industria (ma anche per altro), lasciando nel territorio solo macerie.
La ‘Chimica del Mediterraneo’ passerà alla storia come la ‘comica del Mediterraneo’, sorvolando sulle responsabilità degli ‘ascari’ (già allora, come oggi, molto attivi). Di quel ‘sogno’ industriale svanito ne nulla restano, ancora oggi, le macerie che sono visibili percorrendo il tratto di autostrada che va da Palermo a Cefalù. Tutto sommato – con il senno del poi – meglio così: almeno la costa di Termini Imerese se si è salvata da un inquinamento che avrebbe travolto tutto.

1970: si parte
Alla Fiat le cose sono andate in modo diverso. Il 19 aprile 1970 – è la data d’inaugurazione dello stabilimento Sicilfiat di Termini Imerese – viene ricordato come un giorno di gioia. Sono gli anni in cui la casa automobilistica torinese produce la Cinquecento: e da lì comincia l’avventura dello stabilimento siciliano.
Storicamente, lo stabilimento Sicilfiat è una delle poche idee riuscite dell’ingegnere Domenico Mimì La Cavera, il vulcanico presidente degli industriali siciliani che, alla fine degli anni ‘50, voleva a tutti i costi (anche con costi economici e finanziari eccessivi, in certi casi) industrializzare la Sicilia.
Dai cancelli dello stabilimento della Sicilfiat usciranno la già citata Cinquecento e altre vetture di successo. La costruzione dello stabilimento comincia nel 1968. La chiedono gli abitanti e le forze sociali del comprensorio che da Termini, passando per le aree interne, arriva fino alle basse Madonie. Decisiva, come ricordano i giornali dell’epoca, l’amicizia tra l’avvocato Giovanni Agnelli, nume tutelare della Fiat, e il già citato Mimì La Cavera.
L’apertura dello stabilimento Fiat è salutata con favore dalla sinistra siciliana, che considera la realizzazione di questo progetto come un processo di modernizzazione della Sicilia e, soprattutto, come l’occasione per fermare l’emigrazione dei disoccupati siciliani verso il Nord del Paese. Per il Pci è anche un modo di rispondere, con i fatti, alle aspre critiche che il filosofo marxista, Mario Mineo, rivolge in quegli anni al partito di Longo e di Berlinguer, accusandolo di avallare – anzi, forse anche di organizzare – un’economia indutriale italiana fondata sul trasferimento di manodopera dal Sud al Nord del Paese, non solo per favorire la Fiat, ma per rafforzare la propria presenza, attraverso la Cgil, nelle aree forti del Nord, se è vero che la gente proveniente dal Mezzogiorno, una volta assunta dalla Fiat, veniva subito ‘sindacalizzata’. Come si può notare, non è certo Prodi, con le ‘rottamazioni’ nella seconda metà degli anni ‘90, a inventare il ‘consociativismo’ tra Fiat e sinistra.

Accordi onerosi (per la Sicilia)
Nessuno, in quegli anni, nota che, forse, gli accordi tra Fiat e Regione siciliana sono particolarmente onerosi per la stessa Regione. Quando i cancelli dello stabilimento di Termini vengono aperti, la maggior parte dei 350 dipendenti risulta reclutata tra i contadini e artigiani dell’area termitana e tra gli abitanti dei paesi delle Madonie.
Oltre alla Cinquecento la fabbrica si cimenterà con i modelli popolari tipici della casa automobilistica torinese: la 126, la Panda, la Punto, fino alla Lancia Ypsilon. Il nome di Sicilfiat viene scelto perché la Regione, all’inizio, detiene il 40 per cento del capitale. Una richiesta, la partecipazione della Regione siciliana al capitale della società, che, così si racconta, è stata avanzata da Gianni Agnelli come una garanzia.
La presenza pubblica cessa presto, se è vero che, già a partire dall’1 novembre del 1970, lo stabilimento è tutto della Fiat. La fabbrica diventa un modello produttivo, anche per la bravura degli operai che vi lavorano. Nonostante la lontananza dai mercati della Mitteleuropa – e quindi nonostante i costi aggiuntivi legati al trasporto delle automobili, che verrà sempre gestito sul gommato e mai utilizzando le ‘autostrade del mare, cioè i trasporti via mare – la fabbrica va bene e riscuote successi. Nel 1979, quando entra in produzione la Panda, vi lavorano, su tre turni, mille e 500 operai. Nella seconda metà degli anni ’80 – forse il periodo migliore – lo stabilimento di Termini Imerese dà lavoro a 3 mila e 200 operai, più altri mille e 200 addetti dell’indotto.
La crisi comincia a ‘mordere’ nel 1993 quando, con la produzione della Tipo, arriva anche la cassa integrazione. Il numero dei lavoratori scende. Nel 2002 vengono licenziati 223 dipendenti. Già allora si comincia a parlare di chiusura. Le lotte operaie servono a poco. La Fiat, che dalla mano pubblica ha avuto molto di più di quanto ha dato a Termini Imerese, ha già deciso. I dipendenti si riducono, l’indotto langue. L’annuncio della chiusura arriva lo scorso anno scorso. Questa volta è quello definitivo.


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